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venerdì 20 gennaio 2012

La CARITA’ secondo san Paolo

La CARITA’ secondo san Paolo

 Sono necessari due rilievi, prima di parlare della Carità secondo san Paolo; due rilievi su
modi di pensare, che fanno parte del nostro bagaglio culturale quotidiano.

 -        Primo rilievo: la constatazione, o la sensazione, che amare da cristiani, soprattutto in certe situazioni molto problematiche, è difficile, e secondo certuni addirittura impossibile … Ci si giustifica col dire: “Sì, sì… parla ben bene il vangelo… però…”, e dietro quel “però” c’è appunto la convinzione che il vangelo punta troppo in alto rispetto alle nostre possibilità, e quindi – se non lo si mette in pratica - ci si sente in qualche modo giustificati … Ma viene anche da domandarsi: possibile che Dio – che è Padre sapiente - chieda ai suoi figli di fare passi più lunghi delle loro gambe?

 -        L’altro rilievo invece è una semplice questione di linguaggio e riguarda le parole “carità” e “amore”: qual è che si deve preferire? Di solito si pensa che la carità è l’atteggiamento che si assume nei confronti di chi è nel bisogno: poveri, malati, persone che versano in stato di necessità di qualche genere… o addirittura la cosa, l’oggetto, che colma quella necessità (la carità allora sarebbe un vestito per chi è senza, un panino per chi ha fame, o denaro per chi è al verde…); ma mai e poi mai si può parlare di carità nelle relazioni più forti, come tra innamorati ad esempio, o tra sposi, o tra genitori e figli.

 Qui è l’amore l’anima della relazione, e l’amore è qualcosa di più raffinato, più nobile della semplice carità? Ma che cos’è effettivamente “carità”? Ed è poi vero che la parola “amore” indica qualcosa di più prezioso e di più nobile?

Ma procediamo con ordine, per non rischiare di fare confusione.

Il linguaggio a disposizione di Paolo e di tutti coloro che hanno scritto su Gesù duemila anni fa era il greco, che si parlava in tutti paesi attorno al Mediterraneo, anche a Roma; e la lingua greca ( a differenza delle nostre lingue di oggi, che a volte sono piuttosto povere,imprecise ) aveva tre  vocaboli per definire l’amore, e tutti tre diversi uno dall’altro a seconda del tipo di amore che si voleva definire.

-        1 ° C’è l’amore di amicizia che attrae e unisce persone che sintonizzano tra loro per simpatia, carattere, per ideali, obbyes, o per comuni esperienze di vita, e questo amore i greci lo chiamavano “philìa”.

-        2° C’è l’amore che porta l’uomo e la donna a cercarsi reciprocamente e ad unire insieme le loro esistenze, e a questo i greci davano il nome di “eros”.

-        C’è anche un amore che non c’entra necessariamente né con l’amicizia né con l’attrazione sessuale: può esserci anche in queste esperienze, ma può esprimersi liberamente a prescindere da questi ambiti. I greci gli davano il nome di “agàpe”.

Cosa intendevano con questa parola?

L’amore che si esprime in maniera totalmente gratuita, che non è condizionato dalla voglia o dallo stato d’animo, né dall’amabilità della persona alla quale si rivolge, e tantomeno dal riscontro che se ne può avere: l’unica ragione che fa scattare questo amore è il bisogno della persona che sta davanti, la si ama perché ha bisogno di essere amata: che quella persona sia riconoscente per questo, e contraccambi, oppure no, non ha importanza: la si ama  ugualmente.

 I testimoni dell’evento cristiano, allorché si trattò di annunciare (in greco) che l’amore di Dio si è incarnato tra noi nella persona e nella storia di Gesù, trovarono che l’unica parola adatta per dire questo era la terza di quelle  sopra citate: agàpe.

L’apostolo Paolo nelle sue lettere non parla mai di eros, una volta sola di “philìa” (l’amore dell’amicizia) e 110 volte di “agàpe”. Potremmo concludere che Paolo parla soltanto di questo amore.

La caratteristica prima dell’amore di agàpe è quella della gratuità: qui si ama senza interesse alcuno, senza aspettarsi ricompensa, o riconoscimento, o contraccambio.  Potremmo specificare che si ama “Gratis”. In greco, “gratis” – “grazia”, si dice “chàris”, da qui viene la parola latina “caritas”: carità. “Agàpe” è stato tradotto con “carità”: parola usata, abusata in 2000 anni di utilizzo, tanto, ormai per molti,  da identificare il significato di carità con il gesto di un’elemosina. Perché allora non adoperiamo la parola amore? o, la parola amore è ancora più abusata? Oggi  amore è usata per dire tutto e il contrario di tutto, basti pensare solo la facilità d’uso che se ne fa tra il rapporto tre due persone; l’importante però, per la logica di quanto detto,  è avere ben chiaro  cosa significhi per noi agàpe, questo per iniziare a comprendere meglio il modo tipico di amare di Dio.

Non c’è lettera di Paolo in cui non si parli di agàpe, ma quella in cui si ha una presentazione più dettagliata di questo modo di amare è la prima ai Corinzi al capitolo 13.

 E per capire bene le parole  dell’apostolo Paolo, occorre sapere prima perché proprio ai Corinzi indirizza questo scritto. Paolo non è mai stato un teologo da scuola o da cattedra: le sue intuizioni, spesso di una profondità eccezionale, sono sempre risposte a domande concrete che le sue comunità gli ponevano, o a situazioni problematiche e contingenti che quelle Comunità sperimentavano. Di Paolo si può affermare perciò, che sia nel suo pensare sia nell’esprimere il suo pensiero il suo linguaggio egli non è mai teorico, o astratto.

A Corinto c’era una comunità che appariva divisa in gruppi e controversie, lacerata da contrapposizioni interne … vi si respirava un clima di individualismo, che poneva alcuni in una posizione di èlite e altri, molti altri, in una situazione di inferiorità.

E quelli che facevano parte dell’èlite si esaltavano perché si sentivano più colti degli altri, più maturi nell’esperienza della fede, più dotati di doni straordinari (i cosiddetti carismi, che a Corinto andavano  di moda). Insomma, una chiesa divisa che aveva smarrito il senso della fraternità, della condivisione, della mutua sollecitudine per inseguire esperienze evasive, esperienze cioè che portavano fuori dalla dura realtà di ogni giorno e fuori anche, alla fin fine, dal cristianesimo stesso.

Ecco cosa scrive Paolo a quei cristiani:

                              Aspirate ai carismi più grandi! E io vi mostrerò una via migliore di tutte.

Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna.

E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza, e

possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sono nulla.

E se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per esser bruciato, ma non avessi la carità, niente mi giova.

La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell'ingiustizia, ma si compiace della verità.

Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta.

La carità non avrà mai fine.

Le profezie scompariranno; il dono delle lingue cesserà e la scienza svanirà.

Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità; ma di tutte più grande è la carità!” (1Cor 12,31 – 13,13)

 Ha un andamento quasi ritmico questa pagina, tanto che è stata definita “l’inno alla Carità”. I primi versetti ripetono e ribadiscono in forme diverse una stessa conclusione: la presenza della carità o la sua assenza non determinano semplicemente modi diversi di essere cristiani, non è qualcosa di facoltativo, di accessorio la carità, ma la sua presenza fa sì che uno è cristiano e la sua assenza impedisce a chiunque di essere cristiano. Paolo parla in prima persona: io … ma è quell’io che ogni credente riferisce a se stesso. Senza la carità, tutto quello che un cristiano possiede o fa è insignificante.

Paolo presenta un bel campionario di supreme possibilità naturali e anche soprannaturali che possono esserci nell’uomo: può essere perfino super-equipaggiato da questo punto di vista, può essere il credente eroico che compie gesti spettacolari e straordinari, come ad esempio donare tutti i propri beni ai poveri, o addirittura capace di dare la propria vita con il martirio: ma cosa vale e a che serve il tutto se non ha la carità?

A sua volta, anche il sapiente o il dotto più profondo è niente senza la carità; Paolo l’aveva già detto in questa lettera del resto: “la scienza gonfia, solo la carità edifica”(8,12).

A Corinto c’era chi, sotto l’effetto dello Spirito, si metteva a parlare in lingue (a volte incomprensibili): senza la carità, quel tale è equiparabile a un gong o a un tamburo che fa solo baccano, e basta, che nessuno comprende. Ora, ridurre una persona a uno strumento (dirgli: sei soltanto un trombone!) è la svalutazione più completa che le si possa dare. La carità, insomma, è il segreto che valorizza tutto ciò che un cristiano è e fa.

Poi segue una successione rapida di quindici verbi che indicano il vastissimo campo di azione della carità.

Chi è animato dall'amore si mostra grande di cuore di fronte a un torto ricevuto o a una ingiustizia subita, e comunque persegue il bene dell'altro. Se per esempio si dice che la carità non è invidiosa, è perché nella comunità cristiana di Corinto l’invidia invece era di casa; se si afferma che la carità non si vanta, è perché persone gonfie di orgoglio ce n’erano più d’una. E oggi ?E nelle nostre comunità?

Di fronte all’agire insopportabile del prossimo, di fronte alle offese, “la carità non si adira, non tiene conto del male ricevuto”.

Se il prossimo si comporta male, la carità non gode (non punta il dito con la segreta soddisfazione che così tutti guardano il suo peccato e non il mio); e se il prossimo invece si comporta bene, la carità si compiace, applaude è pronta a sottolineare il merito.

Poi ci sono quei quattro verbi finali, che danno ritmo e solennità alla conclusione: “Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta”.

Chi è mosso dalla carità mostra un atteggiamento d'illimitata comprensione e fiducia nel fratello e non si arrende mai di fronte a nessuna difficoltà.

Alla fine, Paolo torna sull’argomento che rischiava di sviare i cristiani di Corinto: i carismi. I carismi sono una realtà parziale, limitata e imperfetta, mentre la carità è semplicemente la perfezione cristiana. La maturità cristiana consiste nell'amare con amore di agàpe, non in altre prestazioni o esibizioni. Anzi, perfino la fede e la speranza non reggono di fronte all’agàpe, alla carità: “che non avrà mai fine” . Essa è più grande anche della fede, anche della speranza anche se un discorso a parte andrebbe fatto per chiarire cosa Paolo intenda con questi altrui due vocaboli.

Paolo  nelle definizioni che attribuisce alla carità elenca giunge perfino a personificarla ed a parlarne quasi fosse una persona, un soggetto vivo e autonomo: “è paziente la carità, è benigna … non è invidiosa … non si vanta, non si gonfia, non cerca il suo interesse … non tiene conto del male … tutto copre, tutto crede, tutto scusa…”:

 Come allora potremmo definire questa benedetta agàpe, o carità?

Non è affatto un carisma alla pari degli altri, tant’è vero che questi passano e invece la carità resta per sempre. Non è neppure una virtù, sia pure la più grande di tutte. Ci avviciniamo alla sua vera identità se la vediamo come un orizzonte: l’orizzonte che si staglia tutti i giorni sulla vita cristiana e dà senso, luce a tutto ciò che un cristiano vive.

Non si tratta però di un ideale che nasce nella persona, e tanto meno di un sentimento diffuso di simpatia, di un generico umanitarismo, o di una romantica filantropia.

E che cos’è allora la carità?

Cerchiamo di capire, e capire bene, se possibile. 

La salvezza portata da Gesù Cristo nella storia umana si è manifestata, si è resa tangibile, in forme diverse. Ebbene, l’agape (la carità) è la sua espressione più perfetta e definitiva. La carità è il dono divino per eccellenza. Possiamo anche  affermare: è  la forza divina donata a noi per grazia che crea persone nuove, capaci di agire in modo nuovo. E poiché è una forza viva, oltre che divina, ecco che via via che cresce, fa crescere noi come cristiani, ci fa maturare: noi diventiamo cristiani adulti, maturi, proprio grazie alla carità. “Venga il tuo Regno”, preghiamo nel Padre nostro ebbene, la carità rappresenta la realtà del Regno di Dio dentro la nostra storia; Carità è Regno di Dio in mezzo a noi.

Per cui non dobbiamo, non possiamo pensare che la carità sia qualcosa che dipende anzitutto da noi, dalla nostra buona volontà, dal nostro impegno; “la carità tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta...”: ma chi di noi può arrivare a questo solo con la buona volontà? Chi? Assolutamente nessuno. La carità è dono divino per eccellenza; è una forza divina donata a noi per grazia; un’energia dall’alto che crea persone nuove, capaci di agire in modo nuovo.

Ecco, infatti la bella notizia del cristianesimo, che per Paolo è un dato di fatto, tanto che ne accenna quasi di passaggio nella lettera ai Romani quando conclude un ragionamento e dice: “l'agàpe di Dio (cioè la carità) è stata riversata nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato” (5,5).  E’ bene sottolineare il verbo usato dall’apostolo Paolo: “riversata” quell’energia, quella capacità di amare in modo divino, Dio non ce la dà col contagocce, ma, se lo vogliamo, la riversa nei nostri cuori in sovrabbondanza, fino a farla traboccare. Il marchio divino di questa energia d’amore, e la sovrabbondanza con cui Dio la dona, spiega l’insistenza di Paolo sulla qualità delle relazioni tra cristiani, sulla delicatezza, sulla finezza che le deve caratterizzare. “La carità non sia ipocrita, scrive alla prima comunità cristiana di Roma, amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno, gareggiate nello stimarvi a vicenda” (12,9.10). “Non abbiate alcun debito con nessuno, se non quello di una carità vicendevole, pieno compimento della legge è la carità”(13,8.10). “Ricercate la carità” scrive ai  cristiani in Corinto; “tutto si faccia tra voinella carità” (14,1;16,14).

 E alle Comunità cristiane della Galazia, turbate da predicatori che diffondono idee strampalate sul cristianesimo, manda a dire: La fede ci salva, non le opere della Legge: la fede che opera per mezzo della carità, quindi mettetevi a servizio gli uni degli altri mediante la carità” (5,6.13).

 Nella Chiesa si è sempre parlato di santità. E’ sempre stata presentata come l’ideale cristiano da raggiungere “Dobbiamo  diventare santi” dicevano un tempo i predicatori durante gli esercizi spirituali.

Paolo non è contrario a questo modo di ragionare, ma si colloca da un’altra prospettiva che probabilmente è più affidabile: santi noi lo siamo perché Dio ci ha aggiunti con la sua azione e ci ha fatti nuovi a partire dall’intimo; noi siamo santi perché Dio ha riversato nei nostri cuori la sua forza d’amore, siamo santi perché Lui è santo.

 Quando scrive ai cristiani di Filippi, di Corinto, di Roma, di Colossi, l’apostolo si presenta così:

“Paolo ai santi che abitano a Filippi, a Roma, a Corinto, a Colossi” e non  intende un contrassegno morale quel “santi”, non significa affatto “bravi, buoni e senza difetto alcuno”;  esprime semplicemente “raggiunti, toccati dall’amore di Dio”, quell’amore di agàpe  con cui Dio ha parlato, si è fatto conoscere. L’impegno cristiano allora è quello di lasciare che ciò che è accaduto dentro di noi traspaia e si veda fuori; l’energia divina della carità impregni tutta la persona: mente,cuore, riflessione, azione, pensieri ed opere. Quelli che noi chiamiamo “i santi”, all’origine erano persone in tutto come noi; l’unica differenza rispetto a noi è che della carità ricevuta come energia e forza da Dio esattamente come viene donata a noi, loro hanno lasciato che impregnasse poco a poco tutta la loro vita, tutta la loro persona, tutto il loro modo di agire e di pensare.

 E’ la carità che ci fa santi, non è l’assenza di difetti o di peccati: solo la carità.

Nella lettera alla comunità di Efeso Paolo  sottolinea sin dall’inizio: “In Cristo, il Padre ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità” (1,4).

 Torna, soprattutto nelle ultime lettere di Paolo, il riferimento esplicito tra “carità” e Gesù Cristo. Cito alcune espressioni dalla lettera agli Efesini:

Che il Cristo abiti per la fede nei vostri cuori e così, radicati e fondati nella carità siate in grado di comprendere con tutti i santi quale sia l'ampiezza, la lunghezza, l'altezza e la profondità, e conoscere la carità di Cristo che sorpassa ogni conoscenza, perché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio” (3,17-19)

“… Vivendo secondo la verità nella carità, cerchiamo di crescere in ogni cosa verso di lui, che è il capo, Cristo, dal quale tutto il corpo… riceve forza … in modo da edificare se stesso nella carità” (4,15.16).

E ancora: “Camminate nella carità, nel modo che anche Cristo vi ha amato e ha dato se stesso per noi… (5,2).

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