Ma procediamo con
ordine, per non rischiare di fare confusione.
Il linguaggio a
disposizione di Paolo e di tutti coloro che hanno scritto su Gesù duemila anni
fa era il greco, che si parlava in tutti paesi attorno al Mediterraneo, anche a
Roma; e la lingua greca ( a differenza delle nostre lingue di oggi, che a volte
sono piuttosto povere,imprecise ) aveva tre vocaboli per definire l’amore, e tutti tre
diversi uno dall’altro a seconda del tipo di amore che si voleva definire.
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1 ° C’è l’amore di amicizia che attrae e unisce
persone che sintonizzano tra loro per simpatia, carattere, per ideali, obbyes,
o per comuni esperienze di vita, e questo amore i greci lo chiamavano “philìa”.
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2° C’è l’amore che porta l’uomo e la donna a
cercarsi reciprocamente e ad unire insieme le loro esistenze, e a questo i
greci davano il nome di “eros”.
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3° C’è anche un amore che non c’entra
necessariamente né con l’amicizia né con l’attrazione sessuale: può esserci anche
in queste esperienze, ma può esprimersi liberamente a prescindere da questi ambiti.
I greci gli davano il nome di “agàpe”.
Cosa intendevano con
questa parola?
L’amore che si
esprime in maniera totalmente gratuita, che non è condizionato dalla voglia o
dallo stato d’animo, né dall’amabilità della persona alla quale si rivolge, e tantomeno
dal riscontro che se ne può avere: l’unica ragione che fa scattare questo amore
è il bisogno della persona che sta davanti, la si ama perché ha bisogno di essere
amata: che quella persona sia riconoscente per questo, e contraccambi, oppure
no, non ha importanza: la si ama ugualmente.
I testimoni
dell’evento cristiano, allorché si trattò di annunciare (in greco) che l’amore
di Dio si è incarnato tra noi nella persona e nella storia di Gesù, trovarono che
l’unica parola adatta per dire questo era la terza di quelle sopra citate: agàpe.
L’apostolo Paolo
nelle sue lettere non parla mai di eros, una volta sola di “philìa” (l’amore
dell’amicizia) e 110 volte di “agàpe”. Potremmo concludere che Paolo parla
soltanto di questo amore.
La caratteristica prima dell’amore di agàpe è quella della gratuità: qui si ama senza interesse alcuno, senza aspettarsi ricompensa, o riconoscimento, o contraccambio. Potremmo specificare che si ama “Gratis”. In greco, “gratis” – “grazia”, si dice “chàris”, da qui viene la parola latina “caritas”: carità. “Agàpe” è stato tradotto con “carità”: parola usata, abusata in 2000 anni di utilizzo, tanto, ormai per molti, da identificare il significato di carità con il gesto di un’elemosina. Perché allora non adoperiamo la parola amore? o, la parola amore è ancora più abusata? Oggi amore è usata per dire tutto e il contrario di tutto, basti pensare solo la facilità d’uso che se ne fa tra il rapporto tre due persone; l’importante però, per la logica di quanto detto, è avere ben chiaro cosa significhi per noi agàpe, questo per iniziare a comprendere meglio il modo tipico di amare di Dio.
Non c’è lettera di
Paolo in cui non si parli di agàpe, ma quella in cui si ha una presentazione
più dettagliata di questo modo di amare è la prima ai Corinzi al capitolo 13.
A Corinto c’era una
comunità che appariva divisa in gruppi e controversie, lacerata da
contrapposizioni interne … vi si respirava un clima di individualismo, che
poneva alcuni in una posizione di èlite e altri, molti altri, in una situazione
di inferiorità.
E quelli che facevano
parte dell’èlite si esaltavano perché si sentivano più colti degli altri, più
maturi nell’esperienza della fede, più dotati di doni straordinari (i
cosiddetti carismi, che a Corinto andavano di moda). Insomma, una chiesa divisa che aveva
smarrito il senso della fraternità, della condivisione, della mutua
sollecitudine per inseguire esperienze evasive, esperienze cioè che portavano
fuori dalla dura realtà di ogni giorno e fuori anche, alla fin fine, dal
cristianesimo stesso.
Ecco cosa scrive
Paolo a quei cristiani:
“Aspirate ai
carismi più grandi! E io vi mostrerò una via migliore di tutte.
Se
anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità,
sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna.
E se
avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza,
e
possedessi
la pienezza della fede così da trasportare le montagne, ma non avessi la carità,
non sono nulla.
E se
anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per esser
bruciato, ma non avessi la carità, niente mi giova.
La
carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si
vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si
adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell'ingiustizia, ma si
compiace della verità.
Tutto
copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta.
La
carità non avrà mai fine.
Le
profezie scompariranno; il dono delle lingue cesserà e la scienza svanirà.
Queste
dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità; ma di tutte
più grande è la carità!” (1Cor 12,31 – 13,13)
Paolo presenta un bel
campionario di supreme possibilità naturali e anche soprannaturali che possono
esserci nell’uomo: può essere perfino super-equipaggiato da questo punto di
vista, può essere il credente eroico che compie gesti spettacolari e straordinari,
come ad esempio donare tutti i propri beni ai poveri, o addirittura capace di dare
la propria vita con il martirio: ma cosa vale e a che serve il tutto se non ha
la carità?
A sua volta, anche il
sapiente o il dotto più profondo è niente senza la carità; Paolo l’aveva già
detto in questa lettera del resto: “la scienza gonfia, solo la carità edifica”(8,12).
A Corinto c’era chi,
sotto l’effetto dello Spirito, si metteva a parlare in lingue (a volte
incomprensibili): senza la carità, quel tale è equiparabile a un gong o a un tamburo
che fa solo baccano, e basta, che nessuno comprende. Ora, ridurre una persona a
uno strumento (dirgli: sei soltanto un trombone!) è la svalutazione più
completa che le si possa dare. La carità, insomma, è il segreto che valorizza
tutto ciò che un cristiano è e fa.
Poi segue una
successione rapida di quindici verbi che indicano il vastissimo campo di azione
della carità.
Chi è animato
dall'amore si mostra grande di cuore di fronte a un torto ricevuto o a una ingiustizia
subita, e comunque persegue il bene dell'altro. Se per esempio si dice che la carità
non è invidiosa, è perché nella comunità cristiana di Corinto l’invidia invece
era di casa; se si afferma che la carità non si vanta, è perché persone gonfie
di orgoglio ce n’erano più d’una. E oggi ?E nelle nostre comunità?
Di fronte all’agire
insopportabile del prossimo, di fronte alle offese, “la carità non si adira,
non tiene conto del male ricevuto”.
Se il prossimo si
comporta male, la carità non gode (non punta il dito con la segreta soddisfazione
che così tutti guardano il suo peccato e non il mio); e se il prossimo invece
si comporta bene, la carità si compiace, applaude è pronta a sottolineare il
merito.
Poi ci sono quei
quattro verbi finali, che danno ritmo e solennità alla conclusione: “Tutto
copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta”.
Chi è mosso dalla
carità mostra un atteggiamento d'illimitata comprensione e fiducia nel fratello
e non si arrende mai di fronte a nessuna difficoltà.
Alla fine, Paolo
torna sull’argomento che rischiava di sviare i cristiani di Corinto: i carismi.
I carismi sono una realtà parziale, limitata e imperfetta, mentre la
carità è semplicemente la perfezione cristiana. La maturità cristiana consiste
nell'amare con amore di agàpe, non in altre prestazioni o esibizioni. Anzi,
perfino la fede e la speranza non reggono di fronte all’agàpe, alla carità:
“che non avrà mai fine” . Essa è più grande anche della fede, anche della
speranza anche se un discorso a parte andrebbe fatto per chiarire cosa Paolo
intenda con questi altrui due vocaboli.
Paolo nelle definizioni che attribuisce alla carità
elenca giunge perfino a personificarla ed a parlarne quasi fosse una persona,
un soggetto vivo e autonomo: “è paziente la carità, è benigna … non è invidiosa
… non si vanta, non si gonfia, non cerca il suo interesse … non tiene conto del
male … tutto copre, tutto crede, tutto scusa…”:
Come allora potremmo
definire questa benedetta agàpe, o carità?
Non è affatto un
carisma alla pari degli altri, tant’è vero che questi passano e invece la carità
resta per sempre. Non è neppure una virtù, sia pure la più grande di tutte. Ci avviciniamo
alla sua vera identità se la vediamo come un orizzonte: l’orizzonte che si staglia
tutti i giorni sulla vita cristiana e dà senso, luce a tutto ciò che un
cristiano vive.
Non si tratta però di
un ideale che nasce nella persona, e tanto meno di un sentimento diffuso di
simpatia, di un generico umanitarismo, o di una romantica filantropia.
E che cos’è allora la
carità?
Cerchiamo di capire,
e capire bene, se possibile.
La salvezza portata da Gesù Cristo nella storia umana si è manifestata, si è resa tangibile, in forme diverse. Ebbene, l’agape (la carità) è la sua espressione più perfetta e definitiva. La carità è il dono divino per eccellenza. Possiamo anche affermare: è la forza divina donata a noi per grazia che crea persone nuove, capaci di agire in modo nuovo. E poiché è una forza viva, oltre che divina, ecco che via via che cresce, fa crescere noi come cristiani, ci fa maturare: noi diventiamo cristiani adulti, maturi, proprio grazie alla carità. “Venga il tuo Regno”, preghiamo nel Padre nostro ebbene, la carità rappresenta la realtà del Regno di Dio dentro la nostra storia; Carità è Regno di Dio in mezzo a noi.
Per cui non dobbiamo,
non possiamo pensare che la carità sia qualcosa che dipende anzitutto da noi,
dalla nostra buona volontà, dal nostro impegno; “la carità tutto copre, tutto
crede, tutto spera, tutto sopporta...”: ma chi di noi può arrivare a questo
solo con la buona volontà? Chi? Assolutamente nessuno. La carità è dono divino
per eccellenza; è una forza divina donata a noi per grazia; un’energia
dall’alto che crea persone nuove, capaci di agire in modo nuovo.
Ecco, infatti la
bella notizia del cristianesimo, che per Paolo è un dato di fatto, tanto che ne
accenna quasi di passaggio nella lettera ai Romani quando conclude un ragionamento
e dice: “l'agàpe di Dio (cioè la carità) è stata riversata nei nostri cuori
per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato” (5,5). E’ bene sottolineare il verbo usato
dall’apostolo Paolo: “riversata” quell’energia, quella capacità di amare in
modo divino, Dio non ce la dà col contagocce, ma, se lo vogliamo, la riversa
nei nostri cuori in sovrabbondanza, fino a farla traboccare. Il marchio divino
di questa energia d’amore, e la sovrabbondanza con cui Dio la dona, spiega
l’insistenza di Paolo sulla qualità delle relazioni tra cristiani, sulla delicatezza,
sulla finezza che le deve caratterizzare. “La
carità non sia ipocrita, “
scrive alla prima comunità cristiana di Roma, “amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno, gareggiate nello
stimarvi a vicenda” (12,9.10). “Non abbiate alcun debito con nessuno, se
non quello di una carità vicendevole, pieno compimento della legge è la
carità”(13,8.10). “Ricercate la carità” scrive ai cristiani in Corinto; “tutto si faccia tra
voinella carità” (14,1;16,14).
Paolo non è contrario
a questo modo di ragionare, ma si colloca da un’altra prospettiva che
probabilmente è più affidabile: santi noi lo siamo perché Dio ci ha aggiunti
con la sua azione e ci ha fatti nuovi a partire dall’intimo; noi siamo santi perché
Dio ha riversato nei nostri cuori la sua forza d’amore, siamo santi perché Lui
è santo.
Quando scrive ai cristiani di Filippi, di
Corinto, di Roma, di Colossi, l’apostolo si presenta così:
“Paolo ai santi che
abitano a Filippi, a Roma, a Corinto, a Colossi” e non intende un contrassegno morale quel “santi”,
non significa affatto “bravi, buoni e senza difetto alcuno”; esprime semplicemente “raggiunti, toccati
dall’amore di Dio”, quell’amore di agàpe con cui Dio ha parlato, si è fatto conoscere.
L’impegno cristiano allora è quello di lasciare che ciò che è accaduto dentro
di noi traspaia e si veda fuori; l’energia divina della carità impregni tutta
la persona: mente,cuore, riflessione, azione, pensieri ed opere. Quelli che noi
chiamiamo “i santi”, all’origine erano persone in tutto come noi; l’unica
differenza rispetto a noi è che della carità ricevuta come energia e forza da Dio
esattamente come viene donata a noi, loro hanno lasciato che impregnasse poco a
poco tutta la loro vita, tutta la loro persona, tutto il loro modo di agire e
di pensare.
Nella lettera alla
comunità di Efeso Paolo sottolinea sin dall’inizio:
“In Cristo, il Padre ci ha scelti prima della creazione del mondo, per
essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità” (1,4).
“Che il Cristo
abiti per la fede nei vostri cuori e così, radicati e fondati nella carità siate
in grado di comprendere con tutti i santi quale sia l'ampiezza, la lunghezza, l'altezza
e la profondità, e conoscere la carità di Cristo che sorpassa ogni conoscenza,
perché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio” (3,17-19)
“… Vivendo secondo
la verità nella carità, cerchiamo di crescere in ogni cosa verso di lui, che è
il capo, Cristo, dal quale tutto il corpo… riceve forza … in modo da edificare
se stesso nella carità” (4,15.16).
E ancora: “Camminate
nella carità, nel modo che anche Cristo vi ha amato e ha dato se stesso per noi…
(5,2).
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