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mercoledì 31 ottobre 2012


PARROCCHIA E FAMIGLIA

DAL DIALOGO ALLA CORRESPONSABILITA’

 

 

 

Premessa

 

Il tema in esame, ad una prima lettura superficiale sembrerebbe richiedere dei suggerimenti su come far interagire i due soggetti in questione: la famiglia e la parrocchia; o meglio ancora su come porre in atto una sinergia che veda insieme la pastorale familiare e quella parrocchiale.

            Mi sembrerebbe una riflessione che rischia di risolversi in qualche buon consiglio di carattere organizzativo e di valore estremamente limitato nel tempo e nello spazio, oltreché di grande debolezza. Infatti la pastorale parrocchiale ha una tradizione consolidata con una struttura delineata (vedi aspetto catechistico-liturgico-sacramentale, con la figura del presbitero al centro), anche se mostra i segni di grandi fatiche ed è in costante ricerca di rinnovamento; dall’altra la pastorale della famiglia che ha fatto i suoi primi passi negli anni ’70 quando sono iniziati i primi segni di difficoltà (referendum sul divorzio 1974 e legge sull’aborto 1978).

            Prima di allora si dava per scontata la “tenuta” della famiglia, ed era collaudata una sua integrazione con l’organizzazione pastorale della parrocchia. Ora dopo questi 30 anni la pastorale familiare contempla al suo attivo i “corsi di preparazione al matrimonio” obbligatori e più o meno ritoccati in questi anni e, dove si è riusciti, qualche iniziativa per le giovani coppie; l’istituzione di gruppi sposi e un appuntamento annuale - dove si fa - di festa diocesana della famiglia.

            Per il resto una valanga straordinaria di indicazioni pastorali del magistero che non trovano attuazione nella vita ordinaria della parrocchia. Una pastorale familiare perciò che vede la famiglia come oggetto passivo coinvolta per ricevere servizi che vengono offerti e non pensata come soggetto; con la ritornante motivazione che non è matura, non è preparata, che le coppie disponibili sono poche.

            Tale impostazione è comprensibile perché nella mentalità e nel vissuto ecclesiale (e ancor più in quello sociale) la tipologia dei soggetti chiamati ad interagire si ferma a due: da una parte la singola persona e dall’altra la comunità (parrocchia, società civile, aggregazione, club) con la conseguente impostazione pastorale che vede il rapporto articolato tra parroco e fedeli, parroco e gruppi di vario genere. È la stessa modalità che noi vediamo frequentemente nelle pubblicazioni di tipo pastorale o sociale, dove la famiglia sembra essere chiamata in causa o per le persone che la compongono, o perché fa parte di una comunità, ma non in virtù della propria identità. Ora, la famiglia, cioè la coppia sposata, comprensiva di figli desiderati e/o presenti, non è assolutamente riconducibile al fatto di essere solamente una somma di due persone o più, né è identificabile con la comunità, qualsiasi essa sia. La famiglia ha una sua identità-soggettività con connotazioni originali proprie ed esclusive e totalmente diversa e distinta dai due soggetti di diritto sopradescritti (persona-comunità):

-    è un soggetto unitario nel quale la reciprocità uomo-donna diventa “una caro”;

-  è una comunità intergenerazionale con relazioni di “sangue”, parentali, che si esprime in interdipendenza, trasversalità di valori, di esigenze, di funzioni e di ruoli;

-   ha una sua continuità: la famiglia non è mai qualche cosa di isolato nel tempo. Ha sempre un prima (di chi ha generato) e un dopo (di chi cresce e si riproduce), è quindi una realtà dinamica in continuo divenire dove avviene una continua integrazione di passato presente e futuro;

-  ha un suo codice di vita, quello dell’amore, che la qualifica in modo originale in tutto il suo percorso, positivo e/o negativo;

-   per noi cristiani c’è poi una “novità” che rilancia la soggettività sopra descritta con: “la dignità sacramentale del matrimonio”.

(1).Lo stesso evolversi storico della famiglia in modalità diverse, accentuando l’uno o l’altro aspetto, non ne ha modificato la sostanza

(2). È per questo motivo che la Familiaris Consortio definisce la famiglia una “società che gode di un diritto proprio e primordiale”, e per tale motivo la società e lo stato sono “gravemente obbligati ad attenersi al principio di sussidiarietà”-

(3). Noi rischiamo di chiedere allo stato e alla società civile di riconoscere la priorità della soggettività della famiglia prima ancora di averla attuata noi nelle nostre parrocchie.

 

- Che dire perciò del rapporto parrocchia-famiglia?

Sappiamo storicamente che la famiglia, pur nelle varie modalità assunte storicamente, era nella società e nella Chiesa, una struttura molto forte, coesa e influente: un soggetto di azione sociale economico e religioso così affermato da reggere gli stessi travolgenti passaggi critici della storia. Lo stesso organizzarsi della pastorale nel tempo non poteva che dare per scontata questa soggettività forte (pur con le sue fatiche, debolezze, contraddizioni) ed offrire un servizio di sostegno, aiuto e integrazione al ruolo da essa svolto. L’articolarsi della pastorale per fasce di età (ad esempio inizialmente con il catechismo dei bambini e poi via via negli anni fino a quello degli adulti) era, nella maggior parte dei casi, un collocarsi accanto alla famiglia per contribuire a completare e perfezionare una formazione religiosa, ma senza che cessasse il dialogo tra la comunità e la famiglia con il suo ruolo riconosciuto. In questi ultimi decenni la situazione è radicalmente cambiata: la famiglia, nella maggior parte dei casi, non è più così. Eppure si continua a dare per scontata una certa forma dell’istituto familiare. Viene inevitabile la domanda:

     Viene messo in atto un processo formativo e responsabilizzante perché essa possa svolgere il suo ruolo?

            Non sono mancati in questi anni tentativi (anche se limitati) di singole diocesi o parrocchie che, per la creatività di parroci di buona volontà, hanno realizzato nuove forme di collaborazione, che vedono la famiglia maggiormente coinvolta nella parrocchia e parrocchie più attente alla famiglia. Ma queste innovazioni rischiano di essere più legate al carisma delle persone che alla prassi pastorale ordinaria.

            Credo che il confronto-incontro tra parrocchia e famiglia, non possa esprimersi solo nel promuovere qualche iniziativa in più “per” la famiglia, salvo poi raccogliere frequenti delusioni, o nel partire dal capitolo della pastorale per famiglie cosiddette irregolari.

            Mi sembra invece che la domanda più profonda e ultima che viene posta da questo titolo sia:

perché questa interazione delle due pastorali?

Quale l’obiettivo finale?

Chi sono i soggetti pre-pastorali che sono chiamati ad interagire e perché?

La risposta a quest’ultima domanda farà luce anche sulle due precedenti e illuminerà il tema che si  sta affrontando.

            I due soggetti in questione sono i presbiteri e gli sposi.

È vero che la pastorale parrocchiale non coincide con il suo parroco, ma è altrettanto vero che per il ruolo che gli è conferito per l’ordine sacro e per la collaudata esperienza in atto, chiedere il dialogo alla pastorale parrocchiale significa primariamente chiederlo al sacerdote. Facciamo però attenzione che non ci chiediamo come costruire relazioni tra sacerdoti e sposati perché, per grazia di Dio, ci sono testimonianze di legami profondi tra essi, fino alla costruzione di significative amicizie e di buone collaborazioni pastorali. Ma non è certamente questa la radice, anche se è un’ottima condizione, per una nuova progettazione della pastorale che veda interagire sacerdoti e sposi in virtù del dono-missione che scaturisce dalla loro rispettiva identità sacramentale. Solo a questo punto saremo in grado di stabilire il dialogo tra la soggettività della famiglia e la comunità parrocchiale.

 

1. Ordine e matrimonio alla luce del Magistero

 

Innanzitutto va detto che ci troviamo in una situazione “sbilanciata”. Per motivi storici, culturali e sociali, ma anche ecclesiali, si è sviluppata una produzione teologica e pastorale abbondantissima e curata riguardo il ministero ordinato, rispetto ad una riflessione meno articolata sul matrimonio e sul ministero (o servizio o compito) originale degli sposi proprio in forza del sacramento che hanno ricevuto, cioè in quanto coppia e famiglia.

Questa situazione, di fatto, ci pone nella condizione di poter raccogliere molto materiale sul sacerdozio, mentre ci crea qualche difficoltà riguardo la teologia del matrimonio e il rapporto tra il ministero presbiterale e quello coniugale, chiamati ad essere per la comunità via privilegiata per la edificazione della Chiesa.

             In questo contesto sono significativi alcuni testi magisteriali che vi propongo.

            “L’ordine e il matrimonio significano e attuano una nuova e particolare forma del continuo rinnovarsi dell’alleanza nella storia. L’uno e l’altro specificano la comune e fondamentale vocazione battesimale e hanno una diretta finalità di costruzione e di dilatazione del popolo di Dio. Proprio per questo vengono chiamati sacramenti sociali”.

“Due altri sacramenti, l’ordine e il matrimonio, sono ordinati alla salvezza altrui. Se contribuiscono alla salvezza personale, questo avviene attraverso il servizio degli altri. Essi conferiscono una missione particolare nella Chiesa e servono all’edificazione del popolo di Dio”

. Lo stesso Catechismo degli adulti così titola la parte dedicata al sacerdozio e al matrimonio: I sacramenti per il servizio della vita comunitaria, spiegando poi che: “Abbiamo imparato a dire «padre» non solo a chi ci ha generato, ma anche al sacerdote. Due paternità, una biologica e spirituale, l’altra solo spirituale. Due sacramenti, il matrimonio che consacra la coppia e fonda la famiglia, l’ordinazione che inserisce nell’ordine o collegio di pastori: l’uno e l’altro direttamente finalizzati a formare e dilatare il popolo di Dio, l’uno e l’altro segno dell’amore sponsale di Cristo per la Chiesa”.

 

            Credo che bastino poche sottolineature ad evidenziare questi testi.

 

a) Ordine e matrimonio specificano la comune vocazione battesimale. Nulla è superiore al fatto di essere diventati “Figli di Dio” e poterlo chiamare col nome di Padre. Da questa dignità altissima che si condivide con tutto il popolo di Dio, “si scende” a servire, “a lavare i piedi”, specificandosi in un servizio che scaturisce da ciascuno dei due sacramenti.

b) Il sacramento dell’ordine è conferito ad una singola persona per il servizio; il sacramento del matrimonio per il servizio è dato ad una “unità di persone”: è la “relazione” che diventa sacramento.

c) Ambedue attualizzano in due modi essenzialmente diversi lo stesso realizzarsi della alleanza di Dio con l’umanità e di Cristo con la Chiesa. Sono “partecipazione e diversificazione” dell’unica sponsalità di Cristo con la Chiesa.

d) Ambedue sono chiamati con ministerialità diverse ad edificare, costruire il popolo di Dio. Cristo ha voluto due sacramenti per “costruire” la Chiesa e nessuno dei due sacramenti può pensare di costruire “Chiesa” da solo.

 

È necessario esplicitare un minimo di fondamento teologico di tale complementarietà tra il ministero ordinato e il matrimonio, che specifici la relazione di questi due sacramenti, come tali pari in dignità. L’intera Chiesa, in quanto “sacramento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano” realizza in molteplici stati di vita la propria realtà di Sposa dell’Agnello e deriva dall’unico mistero eucaristico, che essa ad un tempo realizza ed esprime. È dunque in riferimento all’unità sacramentale della Chiesa che dobbiamo percepire la complementarietà dei due sacramenti.

Nell’ambito di una ecclesiologia articolata è l’unico mistero pasquale di Cristo che si partecipa alla persona dei credenti in diversa modalità, ad un tempo soggettiva ed oggettiva, realizzando così l’intima partecipazione a Cristo dell’intera Chiesa, che “è il suo corpo” (Ef 5,23; Col 1,18).

Il mistero di Cristo morto e risorto dono alla persona umana il suo vero destino, unendolo a sé nella relazione misterica e reale del corpo mistico. Nel battesimo la persona umana attinge il suo significato più autentico e definitivo, corrispondente a quello iniziale della creazione, divenendo persona “cristiforme” ( testimonia San Paolo: “ non sono più io che vivo, ma Cristo che vive in me” (Gal. 2,20).

Nel realizzare la pienezza del suo corpo che è la Chiesa il Risorto dona alla sua sposa i doni necessari per realizzare la pienezza della sua natura, che coincide con la relazione stessa che essa – una, santa, cattolica ed apostolica, trova in Lui.

Il ministero ordinato tende per sua natura alla costituzione e santificazione di ogni credente, cioè al compimento della sua relazione con Cristo. Esso trova quindi nel “in persona Christi” la sua più autentica dimensione. Cristo stesso, nella forma sacramentale dei ministri – secondo il loro ordine e grado – realizza e compie per il suo popolo il mysterium salutis. Tale mistero è mistero di relazione sponsale, secondo la teologia dell’alleanza e dell’amore dell’Antico Testamento ripresa e rimeditata in chiave cristologica dal Nuovo Testamento, soprattutto da Giovanni, sia nel Vangelo, che nelle Lettere e nell’Apocalisse. Tale orizzonte sponsale fu recepito dall’intera patristica e si riversò come chiave ermeneutica nell’itinerario di santità che la tradizione ecclesiale ci trasmette. (L'ermeneutica è in filosofia la metodologia dell'interpretazione. La parola deriva dal greco antico ἑρμηνευτική (τέχνη), in alfabeto latino hermeneutikè (téchne), traducibile come (l'arte della) interpretazione, traduzione, chiarimento e spiegazione. Essa nasce in ambito religioso con lo scopo di spiegare la corretta interpretazione dei testi sacri). Così che “in persona Christi” viene a coincidere con “in forma Sponsi”. Il sacerdote esprime sacramentalmente la presenza di Cristo sposo della Chiesa.

In questa luce sponsale il matrimonio si colloca come luce che illumina e sacramentalmente esprime, compiendolo, il mistero nuziale di Cristo e della Chiesa. Cristo stesso, come e più che alle nozze di Cana, dice e compie se stesso, il proprio mistero di morte e risurrezione (il che ci rimanda alla radice battesimale) nella unità duale dell’uomo e della donna, nella verità del loro mysterium nuziale.( non più due, ma una sola carne. Marco 10:7 “I) Essi esprimono dunque, per l’intera Chiesa e per il corpo intero dell’umanità il mistero nuziale di Cristo, già in radice contenuto nell’atto creativo ed affondante la sua origine nel mistero stesso della Trinità, comunione ipostatica di Amore. (Nel Cristianesimo il concetto neoplatonico di ipostasi svolse un ruolo fondamentale nella formulazione della dottrina trinitaria: i caratteri specifici di Padre, Figlio e Spirito Santo furono definiti come ipostasi (sostanza personale), ma posti a un livello paritario e non più gerarchico. Il termine "ipostasi" fu così consacrato dal concilio di Calcedonia (451) che affermò l'esistenza in Cristo di un'unica ipostasi-persona in due nature: umana e divina). Così gli sposi compiono e testimoniano, secondo l’intima vocazione della natura del sacramento del matrimonio, la relazione stessa di Cristo con ogni uomo ed ogni donna credente. La loro “persona coniugale”, la loro intima unidualità sacramentale si esprime, a differenza del ministero ordinato, “in forma amoris sponsalis”. Gli sposi infatti esprimono sacramentalmente, nella loro unità sponsale, la relazione di Cristo con la Chiesa, pasquale e salvifica.

L’unico mistero e l’unica relazione con Cristo specifica, secondo due volti dell’unico mistero, che solo in Cristo si fonda e solo il Risorto vive nella pienezza dell’unità senza frammentazioni, due sacramenti che, vissuti nell’unità della sacramentalità della Chiesa, contribuiscono a dare alla Chiesa stessa il volto della sua pienezza. I due sacramenti sono su questa matrice partecipi, secondo volti e modi diversi, ontologicamente e sacramentalmente differenti, anche della missionarietà della Chiesa, secondo una diversa soggettività ecclesiale, ma costituendo entrambi, in quanto sacramenti, un elemento essenziale della missione. È in questo modo che essi contribuiscono a costituire quella “pienezza del suo corpo, che è la Chiesa” (Ef 1,21-23).

Sponsalità della persona umana e sponsalità della Chiesa si illuminano dunque a vicenda ed illuminano l’intima relazione tra i due sacramenti dell’ordine sacro e del matrimonio. E si comprende anche che qualcuno pensi alla loro relazione in chiave di una complementarietà che diviene reciprocità, poiché le due specificità non solo si completano, ma trovano l’una nell’altra un più pieno significato della propria identità.

 

Poiché entrambi costituiscono elementi essenziali dell’essere della Chiesa e della sua missione si comprende lo sforzo che qualche teologo realizza di ricondurli, secondo il dettato conciliare, all’unico mistero eucaristico, coincidente con l’identità ecclesiale, che essi esprimono. Secondo il Mazzanti infatti ordine e matrimonio derivano dall’unico mistero eucaristico, unitamente all’intera dinamica sacramentale della Chiesa, e ad esso riconducono.

 

Fermiamoci ora a contemplare i doni:

“I presbiteri sono, nella Chiesa e per la Chiesa, una ripresentazione sacramentale di Gesù Cristo Capo e Pastore, che proclamano autorevolmente la parola, che ripetono i gesti del perdono e di offerta della salvezza, soprattutto col battesimo, la penitenza e l’eucaristia, che esercitano l’amorevole sollecitudine fino al dono totale di sé per il gregge che raccolgono nell’unità e conducono al Padre, per mezzo di Cristo, nello Spirito”.

Gli sposi sono, in virtù del sacramento del matrimonio “segno e riproduzione di quel legame che unisce il Verbo di Dio alla carne umana e il Cristo capo della Chiesa suo corpo nella forza dello Spirito”.

            “Per i battezzati il patto coniugale è assunto nel disegno salvifico di Dio e diventa segno sacramentale dell’azione di Grazia di Gesù Cristo per l’edificazione della sua Chiesa”.

            “Nell’incontro sacramentale Gesù Cristo dona agli sposi un nuovo modo di essere per il quale sono come configurati a Lui Sposo della Chiesa e posti in un particolare stato di vita entro il popolo di Dio”.

           

            Saper cogliere il dono straordinario che è dato all’uomo che è consacrato presbitero deve renderci simultaneamente capaci di cogliere il Mistero di Dio presente nel sacramento del matrimonio, la novità che inizia con il rito e permane nella vita degli sposi. Così scrive lo Scheeben: Il matrimonio cristiano, sta in relazione reale, essenziale, intrinseca col mistero dell’unione di Cristo con la Chiesa; ha la sua radice in esso, è intrecciato organicamente con esso, e quindi partecipa della sua natura e del suo carattere soprannaturale. Non è semplicemente il simbolo di questo mistero, o un esemplare che rimane fuori del medesimo, bensì una copia germogliata dall’unione di Cristo con la Chiesa, prodotta e impregnata della medesima, dato che non solo raffigura quel mistero, ma lo rappresenta in se stesso realmente, ossia mostrandolo attivo ed efficiente dentro di sé”.

            Si può concludere questa breve riflessione con le parole del Card. D. Tettamanzi: “Se questo è il profilo teologico, ben diverso è quello pastorale, perché il più delle volte la vita vissuta e la prassi pastorale non manifestano affatto la «pari dignità» dei sacramenti. Per questo la relazione tra i due sacramenti – ordine e matrimonio – da dato oggettivo deve diventare dato soggettivo, deve cioè entrare e stabilirsi nella coscienza, nella mentalità, nel costume, nell’agire concreto. Occorrerà poi allora iniziare pazientemente e coraggiosamente con il «restituire» nella prassi pastorale la rilevanza sacramentale al matrimonio, che – ripeto – non può essere pensato unicamente come un «dato naturale». In un certo senso è questione di «giustizia», di giustizia soprannaturale, che dev’essere assicurata da tutti: dagli sposi stessi, anzi tutto, e dagli altri, a cominciare dai presbiteri. Significativo al riguardo è l’appello rivolto da Giovanni Paolo II agli sposi: “Parafrasando S. Leone Papa non posso evitare di dirvi «Sposi cristiani, riconoscete la vostra eminente dignità!».

 

2. Ordine e matrimonio alla luce della prassi pastorale

 

Oltre alla differenza di approfondimento teologico che vede la teologia del sacramento del matrimonio e ancor più quella della famiglia molto meno sviluppata rispetto a quella del sacerdozio, possiamo dire che anche la pastorale, per altri motivi, mette in evidenza che il matrimonio sacramento e la famiglia sono “soggetto debole” rispetto al presbitero.

Questa lettura in parallelo dei due sacramenti non vuole assolutamente sminuire la diversità essenziale che esiste tra i due ed il ruolo totalmente diverso che hanno nella Chiesa e nella società, ma semplicemente prendere in esame la prassi pastorale a partire dal fatto che sono due sacramenti che dicono una presenza efficace di Cristo nella Chiesa per il mondo, per verificare se vi è espressa la stessa fede conseguente.

 

a) La preparazione al sacramento

 

            Nella preparazione al sacerdozio c’è un obiettivo preciso: far crescere un adulto nella fede perché “rispondendo alla chiamata ad attualizzare Cristo Pastore, sia reso capace di esprimere questo dono a servizio della comunità. L’obiettivo è di formare un soggetto attivo nella vita della Chiesa per il mondo”. Vengono messe in atto strategie educative perché il “chiamato” impari ad agire “in persona Christi”, a comportarsi in modo da testimoniare, far trasparire il “mistero di Cristo” che è in lui.

            Nella preparazione al sacramento del matrimonio quale obiettivo si propongono i “corsi”?

È una domanda indispensabile perché dalla definizione dell’obiettivo scaturiscono poi i modi, i tempi e i contenuti per realizzarlo.

Guardando la prassi, gli obiettivi che sembrano alternarsi sono:

a)     dare un minimo di preparazione per garantirsi come Chiesa la coscienza che non abbiamo dato un sacramento della fede a degli adulti senza far loro sapere che cosa fanno;

oppure

b)     non spegnere il “lucignolo fumigante” e tentare di recuperare culturalmente qualche elemento essenziale della fede;

c)     proporre un cammino di riconciliazione e riavvicinamento alla Chiesa offrendo un buon cammino di fede;

d)     ricordare le norme morali che sono chiamati a vivere gli sposi nel matrimonio.

 

Sono tutti obiettivi che stanno sotto la soglia della verità del matrimonio sacramento. Per esso infatti gli sposi sono chiamati a partecipare dell’amore sponsale che unisce Cristo alla Chiesa ed a testimoniarlo nella modalità laicale.

Sono chiamati ad essere un “soggetto ecclesiale” che è memoria, attuazione e presenza di ciò che è accaduto sulla croce.

Sono “trasportatori attivi” nelle strade del mondo, mediante la loro unione coniugale, del “mistero grande” (Ef 5,32): “soggetto sociale”.

            La domanda da porsi davanti ad una coppia che chiede il matrimonio in Chiesa è:

che cosa è chiamata a “diventare” con il sacramento del matrimonio?

 

La differenza con la preparazione al sacerdozio si manifesta lampante perché mentre i seminaristi rimangono in seminario con un obiettivo preciso verso cui tendere e tutto è finalizzato ad esso, chi va al corso per fidanzati quale finalità si trova proposta?

           

Anche per questo il Direttorio di pastorale familiare parlando della pastorale prematrimoniale arriva a scrivere che “essa si trova di fronte ad una svolta storica. Essa è chiamata ad un confronto chiaro e puntuale con la realtà e ad una scelta: o rinnovarsi profondamente o rendersi sempre più ininfluenti e marginali”.

 

b) Formazione permanente

 

Bastano pochi cenni per capire la diversità di impostazione tra il sacramento del sacerdozio e quello del matrimonio.

           Nel primo caso non si risparmia tempo, energia e passione per aiutare il presbitero fin dai primi anni a tenere viva la sua dimensione sacramentale, a ricordargli che pur nell’abitudine di ruoli e servizi egli è “segno visibile” di un mistero d’amore, di una presenza viva di Cristo nella Chiesa. (Ritiri, esercizi spirituali, incontri, appuntamenti, guide spirituali, fraternità sacerdotali, collaborazioni, letture, ecc.)

Per gli sposati nel Signore si perde di vista immediatamente la novità dell’essere stati costituiti sacramento; basta che ci sia un minimo d’amore che li fa rimanere insieme, riducendo la coscienza e la grazia sacramentale al solo dato naturale.

 

La dimensione sacramentale negli sposi proprio perché inerisce pienamente al dato umano ha bisogno ancora più di essere tenuta viva, fatta crescere, nutrita di Parola e di Pane eucaristico perché sono stati chiamati ad annunciare Cristo. Proprio perché la vita stessa di coppia è segno sacramentale della “presenza e testimonianza della grazia del Salvatore, che purifica, rinnova ed eleva la realtà umana” dovrà essere tenuta più viva la dimensione sacramentale.

 

c) Ruolo dei due sacramenti nella prassi pastorale

 

            Il ruolo del presbitero è ormai precisato e consolidato anche se non mancano fatiche nell’esercizio di ciò che è specifico del sacerdozio e di ciò che è gestione di una organizzazione necessaria. Per quanto riguarda il matrimonio, accanto ad enunciati magisteriali non vi è questo approfondimento del ruolo specifico che scaturisce dal sacramento e ancor meno la sua affermazione nella prassi.

            Oltre a ciò va fatta un’altra osservazione. La parola “Pastorale”, senza cattiva volontà di nessuno, è finita per essere intesa nel vissuto comune come “tutto ciò che si fa attorno alla parrocchia o al presbitero”.

Per questo proporre a degli sposati di collaborare nella pastorale è immediatamente sinonimo dell’aver tempo (poco o tanto) da dare per l’attività che si svolgono in parrocchia. È certo che la parrocchia ha un suo posto importantissimo, ma se prendiamo tante affermazioni del Concilio riscopriamo che è tutta la comunità, in tutti i suoi membri, che sono soggetto pastorale là dove vivono e operano.

“Pastorale” è il rendersi presente ora di Cristo Pastore risorto mediante il suo corpo (la Chiesa, comunità di credenti), per salvare, per lavare i piedi, per incontrare, per illuminare, per andare a pranzo con Zaccheo, per offrire il suo Corpo, la sua Riconciliazione.

In questo orizzonte c’è uno straordinario spazio “pastorale”, non solo in parrocchia, ma anche fuori per tutti gli sposi che nel loro vissuto normale possono essere “presenza di Cristo” che ama, costruttori di relazioni, costruttori di Chiesa che vive nel territorio.

 

d) Visione riassuntiva

 

            Se vogliamo condensare questa diversità tra ordine e matrimonio nella prassi pastorale potremmo dire che i sacerdoti, per il sacramento ricevuto, sono sempre pensati e attivati come “soggetto, risorsa per la vita della Chiesa”. Anche se talora mostrano nel vissuto difetti o contraddizioni rimangono a pieno titolo una “risorsa”. Dall’altra parte il sacramento del matrimonio è considerato come un “oggetto della pastorale” e rischia di rimanere tale. La famiglia è convocata per circostanze (inizio della catechesi, prime comunioni, cresime, ecc.) ma non è considerata parte organica e strutturale alla vita della parrocchia, è più vista nell’ottica del costituire un “problema” piuttosto che una risorsa pastorale. Molto spesso abbiamo progettazioni pastorali che non tengono in nessun conto la presenza e il ruolo sacramentale del matrimonio e la sua specificità viene diluita nella dizione “laici” fino a scomparire.

            Alla luce della prassi si possono elencare diverse iniziative o comportamenti o celebrazioni che dicono la fede della comunità cristiana nel sacerdozio e dall’altra parte non intravedo, nell’insieme dei gesti della stessa comunità, ma che dicano la fede nel sacramento del matrimonio (solo qualche volta la celebrazione del rito), che mostrino attenzione al mistero di Cristo che in esso si manifesta. Sembra che tutto sia solamente un dato umano che non ha bisogno di “fede” per essere compresa, aiutata, valorizzata come “risorsa” per l’evangelizzazione e la pastorale.

 

3. Dal dialogo alla “Complementarietà” tra il Ministero ordinato ed il “servizio specifico” che scaturisce dal sacramento del Matrimonio

 

            Innanzitutto vorremmo fare alcune precisazioni circa le parole usate.

            Complementarietà” non significa che ciascuno dei due sacramenti è in sé incompleto o inefficace senza la presenza dell’altro, ma che ambedue sono complementari in ordine al fine che si propongono:

tutti e due sono doni essenziali, costitutivi e permanenti per la costruzione del Regno.

 

Mentre ciò viene immediatamente in evidenza per il sacerdozio, non sembra altrettanto per la dimensione sacramentale del matrimonio.

Non basta che sia “celebrato” il sacramento del matrimonio per dirne tutta la verità e il significato, ma va promosso nel suo significato costitutivo.

            Così scrive il Card. Tettamanzi: “Per questo il ministero della coppia cristiana nella Chiesa deve dirsi ordinario e permanente: ordinario non certo nel senso di secondario o marginale, ma nel senso di ministero connesso con la struttura stessa della Chiesa e quindi come elemento essenziale e costitutivo della Chiesa; e permanente, non solo e primariamente in rapporto alla singola coppia il cui ministero è permanente in quanto connesso con uno stato stabile di vita, ma anche e soprattutto in rapporto alla Chiesa come tale, nella quale il ministero coniugale è qualcosa di costitutivo e perciò stesso ineliminabile”.

            L’altra precisazione che va fatta è attorno alla parola “ministero” usata per gli sposi.

Vi è una diversità di opinioni teologiche. Da una parte chi preferisce non usarla, perché più specificatamente legata al sacramento dell’ordine. Dall’altra un costante uso che se ne è stato fatto nel Magistero, particolarmente nella Familiaris Consortio. Ma al di là degli approfondimenti teologici il dato è certo e inequivocabile: dal sacramento del matrimonio scaturisce una missione, un compito originale e specifico degli sposi nella Chiesa e nel mondo.

            La deliberazione conclusiva dei Vescovi italiani del 1975 affermava

 “Insieme al sacramento dell’ordine, il matrimonio è costante punto di riferimento per l’edificazione e la vita della comunità cristiana”.

 

A queste affermazioni fanno eco quelle del Convegno Ecclesiale di Palermo (1995) che così si esprime nella sintesi conclusiva del quarto ambito sulla famiglia:

“Esplicitare il ministero coniugale e rendere più cosciente la famiglia dei suoi compiti. Gli sposi, in quanto ministri del sacramento, sono portatori di una specifica ministerialità, che si manifesta nella vita della famiglia (nella fedeltà, fecondità, comunione, educazione) e che li rende vero soggetto protagonista della vita ecclesiale e sociale, in quanto dotati di un carisma particolare”.

            Come si realizza questo “insieme”?

a)     È solo un accostarsi rispettoso, un dialogo o c’è una organicità di relazione in ordine alla Chiesa e al suo essere nel mondo?

b)     È per organizzarsi pastoralmente o c’è un dialogo tra le identità per poi armonizzarsi per la missione?

           

Per non formulare ipotesi pastorali fantasiose propongo una strada sicura sotto il profilo magisteriale. La Presbiterorum Ordinis descrive tutto il ministero specifico del presbitero secondo i “tria munera”.

Il documento post-sinodale Familiaris Consortio così esprime per sintetizzare il compito della famiglia:

“Perciò la famiglia cristiana che nasce dal matrimonio, come immagine e partecipazione del patto di amore del Cristo e della Chiesa, renderà manifesta a tutti la viva presenza del Salvatore del mondo e la genuina natura della Chiesa, sia con l’amore, la fecondità generosa, l’unità e la fedeltà degli sposi che con l’amorevole cooperazione di tutti i suoi membri. Posto così il fondamento della partecipazione delle famiglie cristiane alla missione ecclesiale, è ora di illustrare il suo contenuto nel triplice e unitario riferimento a Gesù Cristo Profeta, Sacerdote e Re, presentando la famiglia cristiana come: comunità credente ed evangelizzante, come comunità in dialogo con Dio, comunità a servizio dell’uomo”.

            Va precisato che la triplice configurazione a Cristo Profeta, Sacerdote e Re per gli sposi acquisisce per la grazia del sacramento del matrimonio una specificazione di quello battesimale. Per la “ comunione di persone” dei coniugi queste tre dimensioni assumono una modalità ed un contenuto specifico nuovo che è dato dalla vita stessa di coppia. Perciò il servizio e la testimonianza di uno/a sposato/a non è solamente quello di un laico qualsiasi, ma di chi è stato segnato da una grazia e da una missione propria e originale.

Come esplicita la Familiaris Consortio: “La famiglia cristiana è chiamata a prendere parte viva e responsabile alla missione della Chiesa in modo proprio e originale, ponendo cioè al servizio della Chiesa e della società se stessa, nel suo essere ed agire, in quanto intima comunità di vita e di amore”.

            Una lettura sinottica dei “ tre doni” (sacerdotale, profetico e regale) nell’ordine e nel matrimonio, metterà in evidenza come famiglia e sacerdote possono far crescere l’autentica comunità cristiana che vive in un territorio.

 

Ø Dimensione profetica

 

Il sacerdote per il sacramento è costituito maestro autorevole nell’annuncio. Così si esprime il Concilio: “I presbiteri in quanto cooperatori dei Vescovi hanno come primo dovere quello di annunciare a tutti il Vangelo di Dio, cosicché, seguendo il mandato del Signore: ‘Andate nel mondo intero e predicate il Vangelo a ogni creatura’ (Mc 16,15), possono costituire e incrementare il popolo di Dio”.

L’annuncio del Vangelo da parte del presbitero non può non intersecarsi con quello che è affidato alla famiglia cristiana, che così è descritto dalle parole di Paolo VI “La famiglia, come la Chiesa, deve essere uno spazio in cui il Vangelo è trasmesso e da cui il Vangelo si irradia. Dunque nell’intimo di una famiglia cosciente di questa missione tutti i componenti evangelizzano e sono evangelizzati.

I genitori non soltanto comunicano ai figli il Vangelo, ma possono ricevere da loro lo stesso Vangelo. profondamente vissuto. E una simile famiglia diventa evangelizzatrice di molte altre famiglie e dell’ambiente nel quale è inserita”.

Le modalità di annuncio sono straordinarie:

La coppia è “immagine-parola” con la quale Dio ha scelto fin dall’inizio di autopresentarsi, di autocomunicarsi, di farsi conoscere.

La coppia uomo-donna è la prima porta di ingresso alla conoscenza di Dio. “A immagine di Dio lo creò, maschio e femmina li creò” (Gen 1,27).

Il Santo Padre Giovanni Paolo II chiama il matrimonio il “sacramento primordiale”, perché è la prima visibilizzazione di chi è Dio.

È un’impronta che Cristo non ha cancellato.

Certo, Gesù è il Verbo fatto Carne, è manifestazione di Dio, ma Egli non annulla questa iniziale modalità di Dio di autoesprimersi.

 

In questa epoca delle immagini, siamo arrivati a farci un’infinità di modi di presentare Dio, facendo però a meno di quella che Lui ha scelto.

Non solo Cristo non ha cancellato la parola-immagine primordiale dell’uomo e della donna, ma ha reso il loro vincolo partecipe della novità di Cristo: “Perciò la famiglia cristiana che nasce dal matrimonio, come immagine e partecipazione del patto d’amore del Cristo e della Chiesa, renderà manifesta a tutti la viva presenza del Salvatore nel mondo e la genuina natura della Chiesa”.

Possiamo dire che i due sposi per il sacramento del matrimonio sono costituiti:

 “parola-carne”,

“parola-parlata” che testimonia,

“parola che racconta” il mistero grande dell’alleanza,

“parola che incarna” il mistero che unisce Cristo alla sua Chiesa.

 

Con il sacramento delle nozze umane gli sposi partecipano del vissuto di Cristo e lo possono esprimere mediante le loro persone nelle loro vicende nuziali/familiari; possono dare volto e storia alla Parola stessa fatta carne. Il Santo Padre arriva a dire nella Lettera alle famiglie: “Non si può, pertanto, comprendere la Chiesa come Corpo mistico di Cristo, come segno dell’Alleanza dell’uomo con Dio in Cristo, come sacramento universale di salvezza, senza riferirsi al ‘grande mistero’, congiunto alla creazione dell’uomo maschio e femmina ed alla vocazione di entrambi all’amore coniugale, alla paternità e alla maternità. Non esiste il ‘grande mistero’, che è la Chiesa e l’umanità in Cristo, senza il ‘grande mistero’ espresso nell’essere ‘una sola carne’ (cfr Gen 2,24; Ef 5,31-32), cioè nella realtà del matrimonio e della famiglia. La famiglia stessa è il grande mistero di Dio. Come ‘chiesa domestica’, essa è la sposa di Cristo. La Chiesa universale, e in essa ogni Chiesa particolare, si rivela più immediatamente come sposa di Cristo nella ‘chiesa domestica’ e nell’amore in essa vissuto: amore coniugale, amore paterno e materno, amore fraterno, amore di una comunità di persone e di generazioni”.

 

È un evangelizzare a livello di “essere” prima ancora che dell’”operare”.

“La vita cristiana degli sposi deve perciò essere un’evangelizzazione credibile ed efficace”. Essa si pone nella lunghezza d’onda del vissuto di tutti gli uomini e donne, parla con la vita e il linguaggio della sponsalità e delle famiglie comprensibile a tutti. “È per questo che la parola centrale della Rivelazione, ‘Dio ama il suo popolo’, viene pronunciata anche attraverso le parole vive e concrete con cui l’uomo e la donna si dicono il loro amore coniugale”. L’attualizzazione di questi principi apre uno spazio consistente:

 

1)     Come la parola-carne, parola-parabola, parola-immagine che è il matrimonio e la famiglia può essere dono dei coniugi tra loro, del rapporto con i figli, con le altre famiglie?

2)     Quale formazione e quale identità-ruolo sono chiamati ad assumere nelle varie situazioni della vita pastorale?

3)     Come sono chiamati ad essere “parola-parlante” mediante il loro essere nella comunità civile, dal condominio alle istituzioni culturali?

Forse prima di tutte queste domande dobbiamo porne una decisiva: quanto e come le nostre coppie e famiglie cristiane sanno di essere “Parola-carne” manifestativa e comunicativa del mistero di Dio in modo efficace?

I nostri sposi conoscono la “specificità” di grazia del sacramento del matrimonio per il quale sono resi idonei a testimoniare il Vangelo mediante la vita di coppia e di famiglia, “conduttori in carne ed ossa” della parola di Dio-Amore?

 

Possiamo così comprendere quanto e come gli sposi e le nostre famiglie “nutrite dalla parola” annunciata dal sacerdote ne sono la prima attualizzazione anche perché c’è una profonda sintonia tra la parola “amore” annunciata e l’identità della coppia scaturita da Dio.

 

Ø Dimensione sacerdotale

 

“I presbiteri sono consacrati da Dio, mediante il vescovo, in modo che, resi partecipi in modo speciale del sacerdozio di Cristo, nelle sacre celebrazioni agiscano come ministri di colui che ininterrottamente esercita la sua funzione sacerdotale in favore nostro nella liturgia, per mezzo del suo Spirito. Essi infatti, con il battesimo, introducono gli uomini nel popolo di Dio; con il sacramento della penitenza, riconciliano i peccatori con Dio e con la Chiesa; con l’olio degli infermi sollevano gli ammalati; e soprattutto con la celebrazione della messa offrono sacramentalmente il sacrificio di Cristo”.

In Familiaris Consortio, 55 leggiamo: “Anche la famiglia cristiana è inserita nella chiesa, popolo sacerdotale: mediante il sacramento del matrimonio, nel quale è radicata e da cui trae alimento, essa viene continuamente vivificata dal Signore Gesù, e da lui chiamata e impegnata al dialogo con Dio mediante la vita sacramentale, l’offerta della propria esistenza e la preghiera. È questo il compito sacerdotale che la famiglia cristiana può e deve esercitare in intima comunione con tutta la Chiesa, attraverso le realtà quotidiane della vita coniugale e familiare: in tal modo la famiglia cristiana è chiamata a santificarsi ed a santificare la comunità ecclesiale e il mondo.

Quale dialogo si può stabilire tra queste due identità sacramentali?

La strada più semplice è passare in rassegna i singoli sacramenti.

 

Battesimo: Cristo unisce a sé come suo corpo i figli dell’uomo per renderli partecipi della sua pienezza di vita (Gv ?). Gli sposi genitori sono coinvolti in modo straordinario per due motivi principali: sono attualizzazione di questa unione sponsale che unisce Cristo al suo Corpo, la Chiesa. Essi inoltre, generando una nuova vita che è orientata a questa appartenenza piena a Cristo, avranno l’impegno di farla crescere non solo fisicamente, ma in quella stessa vita nuova della quale loro sono memoriale vivo e profezia.

Per gli sposi, ogni battesimo dei figli per è un “ravvivare” la grazia che è in loro, e una nuova chiamata ad esprimerla nel far crescere la vita che è nata per condurla alla pienezza della maturità, che è l’unione totale con Cristo. Ma nel contempo si apre l’orizzonte del servizio alla vita proprio di ogni coppia di sposi. È un servizio che è qualificato dal “conoscere” che ogni vita viene da Dio e a Lui è destinata. I genitori sono così costituiti edificatori della vita non solo nel farla nascere ma anche nel farla crescere unitariamente nella sua dimensione naturale e spirituale (padri e madri nella carne e nello spirito). È l’esercizio di una maternità e paternità che, sperimentata nella sua origine e nel suo fine si allarga ad ogni figlio/a di questo mondo, cosicché “Mio figlio/a/i” sono solamente l’inizio della paternità grande di Dio, della quale i genitori sono stati resi partecipi e della quale sono chiamati ad essere nella Chiesa e nella società un segno, una testimonianza viva, leggibile e sperimentabile. Quanto padri e madri sono chiamati a dare alle nostre comunità cristiane il volto della paternità e della maternità di Dio! Quanto la nostra società ha bisogno di padri e madri che nel tessuto del vivere ordinario dicano la preziosità e si prendano la responsabilità per l’originalità di ogni vita, dal suo concepimento al suo termine naturale! Oggi rischiamo di rimanere con un elenco di principi sulla vita da difendere, più che con un esercito di padri e madri che in forza di un’esperienza straordinaria, che è la partecipazione alla paternità di Dio siano difensori della vita e collaborino con chiunque perché ogni vita sia accolta e fatta crescere fino a maturità.

È su questa risorsa di sposi e genitori che si può ravvivare un dialogo tra parroci e famiglia per una rinnovata attenzione e servizio ad ogni vita. Va riconosciuto che è stata nella storia la presenza di queste famiglie che ha dato alla Chiesa santi preti e laici. L’esperienza di molti parroci può testimoniare cosa significa la presenza di una famiglia di questo tipo in parrocchia.

 

Cresima: è il dono dello Spirito perché il figlio viva la sua responsabilità e testimonianza cristiana nella sua vocazione. Lo Spirito Santo, accolto come “artefice” del cammino di configurazione della vita del battezzato a quella di Cristo Signore, fino alla maturità. È lo stesso Spirito Santo che, donato agli sposi nel sacramento del matrimonio e operante in essi in modo permanente, li accompagna non solo nel donarsi la vita reciprocamente ma anche perché nel generare, conformino la loro vita di padri e madri attualizzando per i figli la “presenza” del Padre che è nei Cieli per educarli alla pienezza della maturità in Cristo. Chi ha generato la vita e la riconosce animata dallo Spirito sa che essa è chiamata a diventare un dono per gli altri; sa che c’è la “chiamata”, la vocazione ad “occupare un posto” non da spettatore, ma da protagonista nella Chiesa e nella società per costruire il Regno di Dio. Da qui scaturisce la responsabilità diretta e successivamente la corresponsabilità dei genitori che sono invitati a collaborare nella formazione cristiana dei figli, con modi e forme diverse, perché arrivino a capire e vivere la propria vocazione nella Chiesa e nel mondo. Senza questa dimensione di servizio i figli rischiano di rimanere sempre “bambini” che devono essere serviti da altri nella loro vita di Chiesa e finiscono per “servirsi degli altri” nella vita sociale.

La stessa pastorale vocazionale talora è intesa da qualcuno solo legata al sacerdozio e alla vita consacrata, facendo più leva sulla disponibilità dei genitori a donare i loro figli per la consacrazione religiosa, che intrecciare il percorso dei genitori con quello del divenire dei figli per renderli capaci di amare e servire, aprendosi alla molteplicità della vocazione. “La famiglia deve formare i figli alla vita in modo che ciascuno adempia in pienezza il suo compito secondo la vocazione ricevuta da Dio “.

 

Eucaristia: non credo necessario approfondire il legame del presbitero con l’eucaristia perché è un argomento ampiamente trattato e per molti costituisce anche la fonte di una grande spiritualità.

Richiamo solamente il legame tra matrimonio ed eucaristia perché può motivare e far crescere il dialogo-collaborazione tra sacerdoti e sposi, per una pastorale con la famiglia. “Nella cena eucaristica ‘prende carne’, si realizza il simbolo delle Nozze tra Dio e l’umanità, tra Cristo e la sua sposa: i due saranno una carne sola”. E questo in modo che si compie in maniera insuperabile la realtà nuziale. Se c’è un luogo e un momento in cui si può vedere e comprendere il cuore della realtà nuziale questo è, secondo alcuni padri della Chiesa, l’eucaristia, mistero nuziale per eccellenza. “Convito nuziale del suo (Figlio) Amore” Per cui leggere l’eucaristia è leggere insieme la nuzialità, sua interna dimensione; ma anche, a sua volta, la comprensione della nuzialità implica e comporta l’approfondimento eucaristico, perché nell’eucaristia la nuzialità umana ha il suo fondamento e, perciò stesso, il suo riferimento archetipale”. Sulla stessa lunghezza d’onda si pronuncia l’esortazione post-sinodale sulla famiglia: “L’eucaristia è la fonte stessa del matrimonio cristiano. Il sacrificio eucaristico, infatti, ripresenta l’alleanza d’amore di Cristo con la Chiesa, in quanto sigillata con il sangue della sua croce. È in questo sacrificio della nuova ed eterna alleanza che i coniugi cristiani trovano la radice dalla quale scaturisce, è interiormente plasmata e continuamente vivificata la loro alleanza coniugale”. Ne consegue che il “mistero d’amore” e di alleanza che Cristo ci offre con il suo corpo per unirci a sé, è attualizzato e reso presente in modo efficace anche “mediante” la coniugalità degli sposi. Infatti la loro alleanza d’amore è “abitata” dall’alleanza di Dio con l’umanità e di Cristo con la Chiesa e con la loro relazione d’amore rendono presente sacramentalmente lo stesso mistero d’amore che si cela nell’eucaristia. Non attualizzano solamente l’essere “corpo donato per amore” l’uno per l’altro, ma con la loro unità sono “nutrimento” d’amore per le relazioni ecclesiali e sociali, sono ‘esportatori di alleanza divina’. La coppia è chiamata con e come l’eucaristia ad essere “pane spezzato” per la Chiesa e la società, perché Cristo le compenetri totalmente.

Alla luce di queste semplici riflessioni si può immaginare cosa significhi preparare e accompagnare un figlio alla prima comunione ed ancor più, cosa significhi la partecipazione della coppia e della famiglia alla messa domenicale. Vanno all’eucaristia per rinnovarsi, rimodellarsi dall’intimo del cuore fino all’espressione più esterna per poter essere loro stessi, singolarmente e come coppia, “corpo donato per amore”. Questo non solo nella reciprocità uomo-donna ma, ciascuno dei due è corpo-persona che dovunque è presente per qualsiasi motivo è un “segno eucaristico”: persona-dono. Ciò esprime la stretta coerenza interna e continuità tra eucaristia, vita di coppia-famiglia, vita di società, vita di parrocchia. Anche gli sposi per “un solo corpo ricevuto” diventano costruttori di comunità cristiana, di fecondità relazionale e di socializzazione nella società civile.

 

Riconciliazione: Per questo sacramento, mentre vi è un rapporto unico e singolare con il sacerdote perché in lui si attualizza il mandato di Gesù a riconciliare i peccatori, per il matrimonio i coniugi sono chiamati a vivere la riconciliazione come dono dato dallo Spirito alla loro vita di coppia. Il primo ‘agente’ di riconciliazione nella coppia è il coniuge, non solo per un perdono ‘a misura umana’, ma anche per il dono di un maggiore amore nei confronti dell’altro. Ciò significa anche che questa dinamica di conversione tocca non solo colui o colei a cui viene perdonato, ma anche chi ha subito il torto. Egli è chiamato ad una accoglienza spirituale, si assiste alla trasformazione spirituale del coniuge che perdona.

E’ questo anche il luogo, reale e simbolico per la natura del sacramento del matrimonio, dove si esprime la fedeltà all’amore e la fedeltà dell’amore.

Tale dimensione di riconciliazione, che ha modalità e tempi diversi dalla riconciliazione sacramentale, ma che è pervasa dalla stessa natura dell’amore purificatore, trova nella famiglia il luogo non solo di riconciliazione “tra” membri della famiglia, ma anche “con”: con i vicini, con ogni persona (si pensi ad esempio a rancori tra parenti, conoscenti, alle faide familiari, e alla portata sociale di gesti di perdono dei familiari delle vittime della violenza e della mafia).

Un’osservazione di carattere più sacramentale: il perdono che il coniuge offre (anche nel caso estremo del coniuge che perdona chi ha tradito o chi ha voluto il divorzio) mette in atto il dono dello Spirito Santo dato ai due; non è solo un esercitare la fedeltà giuridica al proprio matrimonio, ma una grazia di riconciliazione ricevuta e sempre offerta. Senza la riconciliazione come contenuto e regola di vita si finisce per “adattarsi alla situazione” o difendendosi quando le richieste dell’altro e dell’altra sorpassano la misura dovuta, come in una buona cooperativa dove si spartiscono a metà guadagni e fatiche.

La relazione, componente essenziale della vita coniugale per poter accedere al dono di amarsi “l’un l’altro come Cristo ci ha amati”[1][48], deve passare inevitabilmente dalla riconciliazione. Se questa è la struttura di vita della coppia, la comunità parrocchiale sarà permeata, mediante le coppie e le famiglie, da un evidente stile di riconciliazione, accoglienza, perdono reciproco a tutti i livelli a tal punto da far riscoprire e vivere in pienezza il sacramento della penitenza come il luogo celebrativo di una riconciliazione che viene da Dio stesso ma che si è potuta respirare nella comunità parrocchiale riconciliante con tutti. A questo aspetto intraecclesiale va aggiunto lo stile di riconciliazione e di pace che gli sposati sono chiamati a portare nella società e nei vari ambienti di vita in virtù della grazia di riconciliazione che sono “costretti” a vivere perché sono sacramento dell’alleanza eterna. Condividono con loro lo stile e la missione della riconciliazione gli stessi figli.

 

Unzione dei malati: è Cristo che si fa presente là dove c’è una vita che soffre e mediante il ministero del sacerdote porte il suo conforto e sostegno. Oggi sempre di più, questo mandato del presbitero, rischia di essere un esercizio “solitario”, una testa senza corpo che dice l’attenzione di Cristo alla vita sofferente. Anche in questo caso il dialogo tra presbiteri e coppia/genitori si fa collaborazione e condivisione di missione. Chi ha generato la vita e è stato reso partecipe della paternità di Dio creatore è chiamato ad esprimere il suo amore e la sua attenzione alla vita soprattutto quando essa è messa alla prova e incontra le difficoltà della sofferenza, della malattia. I primi “curatori” della vita ammalata sono coloro che hanno generato la vita. Chi ha goduto e sofferto un parto, chi conosce sulla propria pelle il valore di una vita (di un figlio, di un marito) non può non intravedere in ogni vita il dono prezioso che viene dall’alto; anzi si muoverà perché tutta la comunità ecclesiale e sociale ponga il massimo di attenzione ad ogni vita. La cura amorevole degli sposi/genitori a chi è malato in parrocchia precederà e seguirà ogni unzione dei malati.

 

Per completare la descrizione della dimensione sacerdotale nel presbitero e negli sposi dovremmo parlare della preghiera. Pur non potendo sviluppare questo argomento mi permetto solamente di invitare noi sacerdoti, in vario modo impegnati nella liturgia a porre attenzione ad una espressione della Familiaris Consortio: “Il matrimonio cristiano… è in se stesso un atto liturgico di glorificazione di Dio in Gesù Cristo e nella Chiesa”[1][49]. In quest’ottica prende significato particolare educare alla preghiera e trasformare tutta la vita in sacrificio spirituale.

 

Ø Dimensione regale

 

La descrizione di questo compito per i sacerdoti viene così espressa dal Concilio: “Esercitando l’ufficio di Cristo Capo e Pastore per la parte di autorità che spetta loro, i presbiteri, in nome del vescovo, riuniscono la famiglia di Dio come fraternità animata nell’unità, e per mezzo di Cristo la conducono al Padre nello Spirito”[1][50]. Per questo mandato egli svolge il suo servizio in varie modalità con l’attenzione di non limitarsi alla cura dei singoli ma di impegnarsi nella formazione di una autentica comunità cristiana.

Per quanto riguarda i laici, punto di partenza significativo è quanto dice il Concilio: “Fattosi obbediente fino alla morte e perciò esaltato dal Padre, Cristo è entrato nella gloria… Questo suo potere Cristo l’ha comunicato ai discepoli, perché anch’essi siano stabiliti nella libertà regale… perché servendo Cristo anche negli altri, conducano umilmente e pazientemente i loro fratelli a quel re, servire il quale è regnare”.

Questa dimensione di servizio è segnata per il sacramento del matrimonio da una modalità e da un contenuto specifico nel loro essere dono per la Chiesa e la società: “La famiglia cristiana è chiamata a prendere parte viva e responsabile alla missione della Chiesa in modo proprio e originale, ponendo cioè al servizio della Chiesa e della società se stessa nel suo essere ed agire in quanto intima comunità di vita e di amore. Se la famiglia cristiana è comunità, i cui vincoli sono rinnovati da Cristo mediante la fede e i sacramenti, la sua partecipazione alla missione della Chiesa deve avvenire secondo una modalità comunitaria: insieme, dunque, i coniugi in quanto coppia, i genitori e i figli in quanto famiglia, devono vivere il loro servizio alla Chiesa e al mondo. Devono essere nella fede ‘un cuore solo e un’anima sola’ (At 4,32) mediante il comune spirito apostolico che li anima e la collaborazione che li impegna nelle opere di servizio alla comunità ecclesiale e civile”.

“In questa prospettiva è facile comprendere quanto sia necessario promuovere la comunione tra le famiglie cristiane nella diocesi e nella parrocchia, chiamata quest’ultima a divenire veramente ‘famiglia di famiglie’,…Una parrocchia è fedele alla sua missione pastorale nella misura in cui aiuta concretamente le famiglie a vivere nella comunione la vita comunitaria secondo la ricchezza delle sue molteplici espressioni. In tal modo si introduce nella comunità ecclesiale uno stile più umano e più fraterno di rapporti personali che della Chiesa rivelano la dimensione familiare, e del mistero della Chiesa, la sua ‘maternità’, il suo esser ‘famiglia di Dio’: potrà così destarsi negli uomini divisi e dispersi la nostalgia dell’«unico gregge sotto un solo pastore»

Vi è quindi un apporto sacramentale specifico dei coniugi e della famiglia alla costruzione della comunità. Le componenti essenziali del vivere della famiglia, complementarietà, corresponsabilità, compresenza, compartecipazione, possono diventare apporto essenziale nel costruire la famiglia dei figli di Dio fino ad essere la famiglia stessa “a dare forma” alla comunità ecclesiale e civile.

Il dono comunionale della coppia e della famiglia è risorsa permanente per costruire ed animare le relazioni dei figli di Dio che formano l’unico corpo di Cristo. Diventa comprensibile allora l’espressione della Familiaris Consortio: “Per questo la famiglia riceve la missione di custodire, rivelare e comunicare l’amore, quale riflesso vivo e reale partecipazione dell’amore di Dio per l’umanità, di Cristo Signore per la Chiesa sua sposa”[1][54].

È interessante notare che la famiglia, fonte e luogo di comunione, è chiamata a svolgere il suo compito simultaneamente nella comunità ecclesiale e civile esprimendo così la coincidenza perfetta tra identità (cristiana, ecclesiale) e la missione (l’essere nel mondo, nel territorio). In questo suo compito la famiglia non ha bisogno di tempi o di ruoli particolari, ma è missione semplicemente manifestando e partecipando ciò che è.

Tali contenuti vengono ben esplicitati nel Direttorio di Pastorale Familiare, nel capitolo sulla missione della famiglia nella Chiesa e nella società. Ne riporto solamente la parte relativa al fondamento sacramentale e sociale del compito della famiglia cristiana: “Per la famiglia cristiana, inoltre, la partecipazione alla vita della società affonda le sue radici nella stessa grazia del sacramento del matrimonio, il quale, assumendo pienamente la realtà umana dell’amore coniugale, abilita e impegna i coniugi e i genitori cristiani a vivere la loro vocazione di laici, e pertanto a cercare il Regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio. Di conseguenza il compito sociale e politico della famiglia cristiana rientra in quella missione regale o di servizio, alla quale gli sposi cristiani partecipano in forza del sacramento del matrimonio, ricevendo a un tempo un comandamento ai quali non possono sottrarsi ed una grazia che li sostiene e li stimola”.

Se queste sono le verità conosciute e proclamate, si può progettare la pastorale o promuovere un dialogo tra pastorali, o parlare di costruzione della comunità ecclesiale o civile prescindendo dalla famiglia o parlando solo genericamente di laici? Accanto a questa dimensione di “servizio alla comunione” per la Chiesa e per la società, andrebbe sviluppato il servizio alla “persona” del quale abbiamo già dato qualche spunto di riflessione parlando del battesimo e che vede la famiglia coinvolta in tutto ciò che riguarda la vita, le persone nella loro singolarità, dal concepimento alla loro morte naturale. Per un approfondimento organico di questo tema rimando al documento Familiaris Consortio e alla Evangelium Vitæ.

Mi permetto di concludere questo aspetto della regalità richiamando un particolare che può costituire non solo luogo di incontro e complementarietà tra preti e sposi, tra parrocchia e famiglia, ma può diventare strumento di pastorale: la casa.

Le case delle famiglie cristiane dei primi secoli erano il luogo dell’incontro, della costruzione di relazioni cristiane, di conversione di parenti e amici, fino alle celebrazioni dell’eucaristia. Oggi le case rischiano di essere supercurate per se stesse e non per la preziosità del sacramento che vi “abita”. Vengono benedette, sono talora incontro per gruppi familiari ma raramente sono il luogo della “buona notizia”, della comunicazione e testimonianza di fede, della dimostrazione di fraternità e amicizia.

La casa, pur piccola, va riportata nel vissuto della famiglia cristiana e della comunità parrocchiale ad essere “strumento pastorale”, mezzo per l’edificazione del Regno di Dio. “Nel nostro tempo, così duro per molti, quale grazia essere accolti in questa piccola Chiesa, secondo le parole di S. Giovanni Crisostomo, entrare nella sua tenerezza, scoprire la sua maternità, sperimentare la sua misericordia, tant’è vero che un focolare cristiano è il volto ridente e dolce della Chiesa!”[1][56].

 

4. Quale percorso pastorale per una corresponsabilità tra parrocchia e famiglia e soprattutto per una pastorale “con” la famiglia.

 

Preliminari

 

q La prospettiva pastorale sopra descritta passa dalla conversione. Si tratta di ravvivare la nostra coscienza nella dimensione “misterica” della Chiesa e in essa del significato e ruolo sacramentale non solo del sacerdozio ma anche del matrimonio. Si tratta di riesprimere la fede nella presenza di Cristo che agisce “nel e col” sacramento del matrimonio, non meno di quanto agisce, sia pur in modo diverso, nel sacerdozio.

q In questo contesto di recupero veritativo-fondamentale per la pastorale va ripensata la relazione tra verginità e matrimonio per riscoprire che in ciascuna delle due forme di vita si compie il disegno di Dio “La rivelazione cristiana conosce due modi specifici di realizzare la vocazione della persona umana, nella sua interezza all’amore: il matrimonio e la verginità. Sia l’uno che l’altra nella forma loro propria sono una concretizzazione della verità più profonda dell’uomo, del suo essere a immagine di Dio”.

q Nello stesso tempo va promosso un approfondimento teologico della relazione tra i due sacramenti dell’ordine e del matrimonio in vista della missione. Questo consentirà innanzitutto di ampliare la teologia del matrimonio e della famiglia ma, nello stesso tempo, di avere più possibilità di affrontare alla radice la motivazione sottesa alla “corresponsabilità” dei due sacramenti per il Regno. Senza questo contributo si rischia di ridurre la relazione ad un “coordinamento” pastorale. Mi permetto di suggerire che siano inviati agli studi teologici superiori su matrimonio e famiglia anche persone sposate o coppie, perché con la loro sensibilità e la loro vita possono dare un contributo significativo di riflessione teologica e di modalità espressiva, oltreché poter essere poi trasmettitori efficaci del “vangelo del matrimonio” a fidanzati e sposi.

q Va data più attenzione alla formazione teologica e pastorale dei seminaristi intorno al matrimonio e alla famiglia. “I compiti che attendono i futuri sacerdoti in questo campo del ministero sono, rispetto al passato, molto più delicati, più esigenti e soprattutto più complessi. Si tratta da una parte di annunciare la novità e la bellezza della ‘verità divina sulla famiglia’ (cfr Giovanni Paolo II, Lettera Gravissimum sane alle famiglie, 1994, 18. 23), di accompagnare la famiglia cristiana verso la perfezione della carità e dall’altra di fronteggiare situazioni di crisi…”[1][58]. La novità e la bellezza della famiglia è proprio la sua soggettività pastorale voluta da Cristo con il sacramento del matrimonio. I seminaristi rischiano di essere formati ad un esercizio nel sacerdozio come “sacramento solitario” nella prassi pastorale, prescindendo dalla risorsa che è il matrimonio per la pastorale. Mi permetto di segnalare su questo argomento un significativo contributo di Pino Scabini[1][59].

q Un ultimo elemento che dovrebbe precedere e accompagnare la pastorale con la famiglia è la promozione di una dimensione sponsale della spiritualità del presbitero, in ordine al fondamento teologico che sopra abbiamo indicato. L’immagine della Chiesa Sposa e di Cristo Sposo – di origine biblica, realizzata già nella creazione, cara ai Padri e quindi non confondibile con altro tipo di “analogia” od immagine – che sta a fondamento della verità stessa del matrimonio cristiano (cfr Ef 5, 31-32) può divenire feconda in ordine alla interiorizzazione del ministero ordinato, come sopra abbiamo indicato sommariamente. Ed inoltre essa diviene feconda in ordine alla reciproca comprensione dei due misteri: il sacerdote che si pensi Sposo della Chiesa in persona Christi guarderà al sacramento del matrimonio come alla forma personale dell’amore nuziale di Cristo e della Chiesa e le implicanze pastorali di questo, che riconducono all’unico mistero eucaristico, sono facilmente intuibili. In questa luce sarà più facile per il presbitero vedere nel sacramento del matrimonio e nelle sue varie dimensioni una forma elettiva del mistero nuziale che eucaristicamente celebra e guardare al concreto della coppia/famiglia come al paradigma di una ecclesialità relazionale e viva. L’orizzonte della comprensione teologica pone al di là degli immediati ostacoli psicologici e di quelli stratificati dalla storia. Ma su questo ci proponiamo di riflettere in un intervento specifico di prossima pubblicazione. La percezione della famiglia come “modello” relazionale dell’essere Chiesa opera una significativa trasformazione dell’approccio pastorale del sacerdote nei confronti della famiglia, un approccio che ne valorizza ad un tempo l’ecclesialità e la soggettività e la cui fecondità pastorale appare evidente, con un minimo di riflessione, agli occhi di tutti. Il presbitero “è chiamato, pertanto, nella sua vita spirituale a rivivere l’amore di Cristo Sposo nei riguardi della Chiesa sposa. La sua vita deve essere illuminata e orientata anche da questo tratto sponsale, che gli chiede di essere testimone dell’amore sponsale di Cristo, di essere quindi capace di amare la gente con cuore nuovo, grande e puro, con autentico distacco da sé, con dedizione piena, continua e fedele, e insieme con una specie di gelosia divina (cf. 2 Cor. 11,2), con una tenerezza che si riveste persino delle sfumature dell’affetto materno, capace di farsi carico dei ‘dolori del parto’ finché ‘Cristo non sia formato’ nei fedeli (cf. Gal. 4,19)[1][60].

 

 

Proposte

 

q Verso percorsi differenziati. Nel panorama delle famiglie e dei fidanzati che vengono a chiedere di sposarsi in chiesa, abbiamo una grande diversità di collocazione nella fede e talora nella stessa maturazione umana. La nostra proposta, invece, è uguale per tutti. Abbiamo individuato un “minimo” da offrire che salvi l’identità del matrimonio che dobbiamo dare e la nostra coscienza pastorale si sente a posto. Va superato questo schema, cominciando ad offrire, almeno a qualcuno, a chi vuole o a chi è disponibile, “tutto” del sacramento del matrimonio e mettendoli poi nelle condizioni reali di poterlo vivere con un accompagnamento ed una spiritualità specifica. Non si può ipotizzare di promuovere la soggettività del sacramento del matrimonio se non vi è la formazione adeguata. Detto in altre parole, la famiglia in vari momenti è “oggetto” di attenzione e servizio pastorale della Chiesa per poter diventare ed essere permanentemente un “soggetto”. Quindi non deve venire meno l’offerta di “servizio” (parola, eucaristia, riconciliazione, catechesi specifica per gli sposi e la famiglia) ma il tutto deve essere finalizzato al far diventare la famiglia una risorsa per la Chiesa del territorio.

q In questa pastorale differenziata e alla luce della teologia del sacramento del matrimonio e in particolare della storia del rito del matrimonio va ripensato il fidanzamento come tempo di vera e propria iniziazione formativa per preparare ad una “missione specifica”. È la proposta di superare, almeno per alcuni, i corsi di preparazione al matrimonio e far coincidere la crescita umano-affettiva dei fidanzati con la crescita spirituale-pastorale mettendo in atto la dinamica vocazionale: “Dall’amore come sacramento (fidanzamento) al sacramento dell’amore (il matrimonio”. Con lo stesso criterio per cui mentre si propone qualcosa a tutti si cerca di offrire tutto a chi vuole, cioè la possibilità di approfondire la propria grazia sacramentale e cominciare ad esercitare in parrocchia e nel territorio la missionarietà specifica. Si tratta così di offrire realmente esempi ed ideali di vita per tracciarne il cammino per le nuove generazioni. Creare perciò una formazione permanente approfondita e specifica.

q Iniziare con alcune coppie/famiglie a progettare insieme la pastorale o nel suo insieme, o in parte. Ad esempio prendere un aspetto della pastorale come un camposcuola o una festa o un percorso catechistico e progettarlo insieme con qualche famiglia. Naturalmente in questa progettazione va tenuto in conto lo specifico che è chiamato a dare il presbitero ma anche quello che può dare la coppia di sposi o la famiglia. È l’obiettivo che si propone un Convegno che si terrà a Cagliari (22-26 giugno 2001) e che avrà per tema: “Progettare la pastorale con la famiglia in parrocchia”. Si cercherà, mediante lezioni e laboratori, di fare interagire il contenuto teologico del sacramento del matrimonio e i compiti che ne derivano con il vissuto concreto di una parrocchia. Individuare, approfondire insieme, sacerdoti e laici sposati, ciò che di specifico sposi e figli possono apportare di “dono-risorsa” nel loro essere nel territorio in tutte le sue espressioni di vita sociale.

q Mentre si inizia a valorizzare e specificare il dono sacramentale che è il matrimonio e la famiglia per la pastorale va data attenzione alle situazioni matrimoniali difficili e irregolari.

q Va anche promossa la formazione di “operatori di pastorale familiare” da distinguere in modo netto da una “operatività” che è chiamata ad avere ogni famiglia. Anzi si può meglio dire che, l’obiettivo di ogni operatore di pastorale familiare è quello di promuovere la soggettività di ogni famiglia che è chiamata ad essere “soggetto” anche senza far nulla di specifico in parrocchia o dintorni. La finalità di questi operatori è di collaborare in modo più stretto con i sacerdoti e la parrocchia particolarmente per quegli aspetti che riguardano la famiglia stessa: formazione dei fidanzati, accompagnamento delle famiglie, accostamento delle famiglie in difficoltà, pastorale generale, pastorale familiare, catechesi con la famiglia, pastorale dei malati[1][62]. Va posta molta attenzione a tenere un alto livello di formazione per questi operatori, proprio per l’obiettivo che si propone il loro servizio.

 

5. Questo contesto culturale “invoca” il matrimonio e la famiglia vissuto e testimoniato come Dio lo ha definito: “Cosa molto buona” (Gen 1,31)

 

La più semplice descrizione circa la situazione della cultura odierna, credo ci venga offerta significativamente da una pubblicazione intitolata “Vado a scuola” (Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento degli Affari Sociali, Osservatorio Nazionale per l’Infanzia, pubblicato nel novembre 2000, che è stato distribuito ai genitori degli alunni delle scuole pubbliche del I anno della scuola di base) che vuole aiutare i bambini a capire che cosa è la famiglia oggi. “Uno dei fenomeni più rilevanti del nostro tempo è la trasformazione della famiglia. Un tempo vi era un unico modello di nucleo familiare, quello formato da padre, madre, figli. Ora le famiglie sono molte: oltre a quelle tradizionali, vi sono famiglie formate da un solo genitore, separate, risposate, adottive, affidatarie. I genitori possono essere sposati, conviventi oppure vivere ciascuno per conto proprio. Il panorama è vario e in evoluzione, tanto più che gli immigrati portano in Italia costumi e tradizioni molto lontani dai nostri. I bambini, che sono i primi a cogliere i mutamenti, l’hanno ormai capito: non vi è una regola che valga per tutti e il matrimonio o la convivenza dei loro genitori non sono necessariamente eterni. Può sempre accadere che papà e mamma che oggi si vogliono bene, domani si separino…” Credo inutile ogni commento al testo ma si evidenzia ancor più che il matrimonio e la famiglia cristiana è in questo momento storico un “buon annuncio” che viene offerto per “salvare” l’uomo e la donna nella loro identità e nella loro relazione. Infatti prima ancora del matrimonio è messo oggi in questione il “genere” (maschile-femminile), il fatto di sposarsi, con chi sposarsi, quando sposarsi, per quanto tempo, fino al “se vale la pena sposarsi”. Si vanno allungando le fila di coloro che temono il matrimonio, più che vederlo come un ideale di vita, il luogo del realizzarsi del maschile e del femminile, se le statistiche indicano un calo di “nuzialità” che si avvia verso il 30% della popolazione[1][63].

Se i monasteri hanno salvato e diffuso la “cultura”, oggi le famiglie cristiane sono chiamate a salvare la “natura” e diffondere la bellezza della coniugalità. Perciò, pur preoccupando pastoralmente la crescita in percentuale delle situazioni cosiddette “irregolari”, devono preoccuparci molto di più quelle famiglie e coppie che “non sanno di niente”, sale senza sapore, non sono “cosa buona”, ma solamente la conservazione di un “istituto di diritto”, senza mostrare la forza ideale nella quale si vede il riflettersi dell’immagine di Dio e il coinvolgimento dell’amore di Cristo per la Chiesa.

Per questo il Santo Padre nel discorso tenuto ai Vescovi italiani nell’Assemblea Generale (maggio 2001) ha nuovamente sollecitato: “Occorre incrementare la pastorale della famiglia, non limitandola al periodo della preparazione al matrimonio o alla cura di qualche specifico gruppo. È indispensabile che le famiglie stesse diventino maggiormente protagoniste nell’evangelizzazione e nella vita sociale…”. Per i sacerdoti e per la parrocchia interagire con la famiglia significa aver capito che il futuro dell’evangelizzazione dipende in gran parte dalla famiglia. Perciò l’invito conclusivo è che mentre crescono le varie forme di ministerialità che si affiancano al faticoso compito dei presbiteri è tempo di valorizzare il sacramento del matrimonio come dono prezioso che il Signore ha fatto alla sua Chiesa nel mondo.

 
 PARROCCHIA E FAMIGLIA  comunità parrocchiale San Rocco e San Lorenzo Martire