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domenica 23 gennaio 2011

La leggenda della befana, dei doni e del carbone.


La leggenda della befana, dei doni e del carbone.

                          Si narra che la corte di re Erode fosse meta di danzatrici, ballerine e musicanti di ogni tipo; tutti facevano a gara per farsi notare dal re, per compiacerlo ed avere i suoi favori.
Tra tutti spiccava una certa Seriba, capace di danzare per ore senza mai stancarsi ed attirare con la sua danza, il suo fascino e la melodia della sua musica, l’attenzione di tutta la corte.
Scaltra e ambiziosa Seriba sfruttava la sua bravura nel danzare e la sua bellezza per ottenere tutte le attenzioni su di sé, consapevole che un giorno il favore del re sarebbe venuto meno e col tempo anche la sua bellezza.
Inoltre Seriba aveva un brutto difetto, non diceva mai la verità e ad essa preferiva sempre le bugie.
Mentendo a suo parere, otteneva anche quello che non le spettava, anche a costo di danneggiare i suoi amici più cari, mentendo si illudeva di ottenere tutto quello che lei desiderava.

Un giorno si presentarono da re Erode tre dignitari provenienti da paesi molto lontani, anche loro re, conosciuti nei loro rispettivi paesi come studiosi degli astri e delle stelle, praticanti delle arti della medicina, per questo chiamati “Magi”.
Chiesero spiegazione sulla nascita di un bambino che, a loro dire, sarebbe dovuto nascere di lì a poco e proprio nel paese di Erode.
 Sostenevano inoltre, che questo bambino diventato adulto, sarebbe stato il più grande di tutti i re. Accecato dalla rabbia e timoroso che un domani il bambino potesse insidiare anche il suo trono, re Erode licenziò sgarbatamente i dignitari dicendo di non saperne nulla del fatto, che a suo giudizio  erano solo dicerie e fantasie del popolino ignorante.
Ma Seriba scaltra e per meritare maggiore apprezzamento agli occhi del re disse: “ Mio signore se voi licenziate quei dignitari come avete fatto, essi andranno altrove a chiedere spiegazioni e prima o poi troveranno che li indirizzerà su quanto da loro cercato.” Il re si rese conto dell’errore commesso, ma orgoglioso com’era non avrebbe mai ammesso di aver sbagliato e questo Seriba lo sapeva.
Allora Seriba aggiunse “ Lasciate o mio signore che sia io ad informare quei viaggiatori su quanto chiedono; dirò loro, inventandomi ogni cosa, che quel bambino nascerà al di là dei monti, indirizzandoli  verso luoghi sperduti da dove non faranno mai più ritorno”.    
Detto e fatto con il consenso e il compiacimento del re Seriba informò i tre re magi raccontando loro tante bugie e dando loro indicazioni sbagliate.
Ma quel re che stava per nascere era non solo il re di tutta la terra, ma anche dei cieli, ed una stella, più curiosa delle altre che stava a guardare cosa stesse succedendo sulla terra, vide e senti le bugie di Seriba.
Non appena la danzatrice rientrò alla reggia del re Erode certa di aver ingannato quei viaggiatori, la stella apparve nel cielo più luminosa che qualsiasi altra stella, con una coda dorata tanto da far impallidire anche la luce della luna. I magi alzando gli occhi attratti da tanto splendore capirono che la stella volesse dire loro qualcosa e che seguendola, li avrebbe guidati al luogo dove il bambino doveva nascere.
Guidati dalla stella alla grotta di Betlemme dove essa dolcemente si posò, furono stupiti nel trovare un bambino in una mangiatoria avvolto in umili vesti.
Ogni cosa però intorno alla grotta sembrava lodare Dio e quel bambino appena nato, tutto sembrava gioire e gridare pace, ogni creatura lì presente era avvolta da sentimenti di bontà, serenità e gioia, tutto il creato sembrava volerlo salutare.
I Magi capirono che solo al più grande di tutti i re potevano dare lode oltre che gli uomini anche ogni creatura dell’universo. Certi di avere finalmente trovato il re tanto cercato, dopo averlo adorato gli offrirono in dono oro, incenso e mirra.
In seguito decisero di far ritorno ai loro paesi, ma uno di loro si ricordò di Seriba, del tentativo di sviarli e delle bugie, e che per questo meritasse una punizione.
Ritornati alla corte di Erode non dissero nulla né al re né a Seriba di avere trovato il bambino, ma ringraziandola per le informazioni ricevute le vollero fare un dono.
Le dissero: “Anche noi siamo re ed abbiamo il potere di esaudire ogni desiderio, ma per te faremo un’eccezione, saremo noi a farti un dono, ti regaliamo l’immortalità, vivrai per sempre tra mille e mille anni sarai ancora in vita”.
Seriba incredula pensò tra sé e sé “ Sono proprio fortunata, ho fatto felice il mio signore Erode ingannando questi allocchi che, inconsapevoli delle mie bugie, mi fanno anche il regalo dell’immortalità”.

Passarono gli anni e Seriba incominciò ad invecchiare come tutte le persone di questo mondo e come a tutte le persone di questo mondo, il tempo impresse anche nel suo corpo i segni degli anni trascorsi.
Divenne sempre più vecchia, le sue amiche, le persone che le stavano intorno incominciarono a morire come muoiono tutti gli esseri di questo mondo.
Ma Seriba invecchiava, le rughe deturpavano quello che una volta era stato il volto capace di far innamorare e perdere la testa a molti uomini, il suo corpo, una volta perfetto si curvava e i boccoli dei capelli color oro di un tempo, si erano trasformati in fili bianchi e stopposi.
 E……………Seriba invecchiava, ma non moriva mai !!!
Passarono i primi cento anni e poi ancora cento e cento ancora, ma Seriba non moriva mai……….

Col tempo tutti gli esseri di questo mondo incominciano a pensare con maggior frequenza, incominciano a riflettere sulle azioni commesse, e riflettono anche coloro che non l’hanno mai fatto. 
Riflettendo e ragionando anche Seriba cominciò a capire che quello che un tempo l’era sembrato un possibile dono, era invece un tremendo castigo. Le sue bugie le avevano guadagnato l’immortalità, ma il suo corpo scandiva il passare del tempo.
Capì allora il male fatto, capì quanto è male dire le bugie, negare la verità, ingannare il prossimo, capì finalmente che doveva chiedere perdono e rimediare in qualche maniera agli errori commessi.  Quando il suo cuore incominciò a scaldarsi e le lacrime le solcarono il volto, in quel preciso istante apparvero a Seriba nuovamente i re Magi, quei viaggiatori di un tempo che cercavano un bambino che sarebbe diventato un grande re, il più grande di tutti i re.   
Le dissero “Seriba se il tuo pentimento è sincero, se veramente vuoi riscattare quanto di male hai fatto in passato con le tue bugie, dovrai impedire che nel mondo altri seguano il tuo esempio”. Seriba tra le lacrime disse “ Cosa potrò mai fare o miei signori” e loro le dissero “Una notte all’anno tu, volando su una scopa magica, andrai per tutte le case; dove incontrerai dei bambini, darai loro dei doni per premiarli se sono stati buoni e del carbone se non lo sono stati e hanno detto delle bugie, così capiranno, così potranno correggersi finché sono ancora in tempo e diventare buoni”.

Da allora Seriba, una notte di ogni anno, volando sulla sua scopa di casa in casa, porta a tutti i bambini della terra doni o carbone, sperando in cuor suo che per l’anno a venire, possa portare    loro solo doni.  

m.z. Fiabe e leggende di quando ancora non esisteva internet

sabato 22 gennaio 2011

La leggenda del pettirosso


                           Un venerdì mattina su un ramo di un albero vicino ad una piccola montagna, un uccellino si svegliò per le urla che riempievano l’aria echeggiando in ogni direzione.     
Una folla concitata ammassata ai bordi del sentiero che portava alla cima del colle, si divertiva ad insultare e schernire un povero giovane sfigurato dal dolore, dalle percosse subite e con il capo martoriato da una strana corona intrecciata con rovi spinosi. Portava sulle spalle una trave che lo costringeva a camminare curvo ed i soldati che gli stavano accanto, si divertivano a frustarlo ed a percuoterlo con i bastoni delle loro lance.
Giunti in cima al monte crocifissero il giovane insieme ad altri due suoi occasionali compagni di sventura, issandoli su un'altra trave, formando così quell’orrendo patibolo che i soldati romani chiamano croce.

L’uccellino guardava da lontano impaurito da tanta violenza e da tanto dolore.
Aveva già altre volte visto scene uguali, aveva visto altre volte dei disgraziati che tra urla, imprecazioni, maledizioni e lamenti finivano la loro misera esistenza appesi a quei legni fatti dagli uomini. Strane creature gli uomini capaci di tanta violenza e crudeltà verso i loro simili !!
Ma questa volta non riusciva a distogliere gli occhi dal viso di quel poveretto che a differenza di altri non imprecava, non malediva, ma sembrava pregare e perdonare tanta inconcepibile crudeltà.

Fissando ancora quel volto si ricordò di lui, di avere già visto quell’uomo.  Lo aveva visto chinato sui malati, poveri e straccioni, circondato da bambini o da mamme che cercavano di toccare le sue vesti, madri che gli porgevano i loro figli perché desse loro una carezza; lo aveva visto osannato da folle festanti, da gente curiosa e bramosa di vederlo e di parlare con lui.
Non capiva perché ora tutti lo insultassero e nessuno intervenisse per liberarlo da quella orribile tortura; che cosa avesse potuto mai fare per meritare quanto gli stava accadendo.

Si fece coraggio e volò più vicino posandosi su una delle tre croci, da lì sentì pronunciare un nome e poche parole da uno dei due compagni crocefissi al fianco  del giovane. Sentì chiamarlo Gesù, stupito lo senti a sua volta pronunciare verso i suoi compagni parole di incoraggiamento, di perdono, di speranza, lo sentì consolare quelli che con lui condividevano tanto patire.     
L’uccellino si fece ancora più coraggio e volò sulla croce di Gesù e dall’alto vide, ai piedi della croce, la madre del quel giovane in ginocchio, anche lei composta nel suo dolore, con il volto solcato dalle lacrime, restare ai piedi  di queilegni con la forza e con la determinazione che solo una madre può avere, sperando ancora che qualcuno potesse aiutare quel suo figlio afflitto da tanto patire, sperando ancora che qualcuno mettesse fine a tanto dolore e le restituisse quel suo figlio affinché lei lo potesse medicare, curare, asciugare dal sangue che gli deturpa il volto, togliere quegl’orrendi chiodi che gli imprigionano mani e piedi; …….. l’uccellino la sentì, da tutti inascoltata, supplicare pietà.

Commosso da tanto dolore e da tanta sofferenza capì che doveva fare qualcosa; ma cosa mai poteva fare un piccolo uccellino come lui.
Volando si avvicinò a quel volto sfigurato dal sangue che colava dalle spine conficcate nel capo, con tutta la forza che aveva cercò di sfilare quella corona di spine ma, esile e minuto come era, si rese presto conto che ogni suo tentativo sarebbe stato vano.   
Risoluto nel suo proposito con ancora più forza e determinazione continuò a tirare e tirare, cercando con tutta la sua forza di togliere quelle spine ma ….. con un movimento improvviso  una di quelle spine si conficcò nel suo piccolo petto trapassandogli il cuore.
L’uccellino trafitto cadde a terra ai piedi della croce.

La madre di Gesù che aveva assistito alla scena lo raccolse stringendolo ed accarezzandolo delicatamente, grata a quel piccolo esserino che, solo tra tanti, aveva avuto pietà per la sorte di suo figlio, opponendosi con coraggio alla crudeltà degli eventi, opponendosi al comune agire, poi guardò suo figlio che con un cenno di intesa le sorrise. In quell’istante l’uccellino riprese sommessamente, poi sempre con maggior vigore a muovere le ali. Quasi senza rendersene conto volò via lasciandosi alle spalle il fracasso e le urla della folla, volando freneticamente come a voler dimenticare quanto aveva visto, come volesse fuggire e cancellare dalla mente tanto orrore e violenza; mesto e angosciato tornò tra i rami sul suo albero nascondendosi nel nido.  

Il giorno successivo come ogni mattina volò al vicino ruscello per dissetarsi, specchiandosi vide sul suo petto un ciuffo di piume rosse come il sangue che usciva dal capo di Gesù. Si specchio più volte nell’acqua, richiamando alla mente ogni attimo di quanto aveva vissuto il giorno precedente. Orgoglioso di quella insolita medaglia ricevuta, non volle lavare il piumaggio del suo petto, perché voleva che da quel giorno, chiunque lo avesse incontrato, guardando il rosso cangiante delle sue piume, sapesse che anche lui aveva conosciuto quel Gesù dal volto gentile; quel Gesù che sulla croce aveva avuto parole di perdono e di consolazione per tutti, anche per coloro che lo avevano inchiodato al legno della croce.
m.z. fiabe e leggende di quando ancora non esisteva internet








martedì 18 gennaio 2011

“ La leggenda dei tre alberi sognatori ”


                                 “ La leggenda dei tre alberi sognatori ”

   C'erano una volta, in cima ad una montagna, tra le valli di una terra lontana, tre alberelli che sognavano quello che sarebbero diventati da grandi.

Il primo guardò le stelle che brillavano in cielo come diamanti sopra di lui. "Io voglio custodire un tesoro, disse, voglio essere ricoperto d'oro e voglio essere tempestato di pietre preziose, sarò lo scrigno più bello del mondo".

Il secondo albero guardò il piccolo ruscello che scorreva scintillando verso il mare. "Io voglio essere un gran veliero, disse, voglio navigare su vasti mari e oceani, trasportare re potenti, sarò la nave più forte del mondo".

Il terzo alberello guardò nella vallata sottostante e vide la città dove uomini e donne si affaccendavano. "Io non lascerò mai questa montagna, disse, voglio diventare così alto che, quando la gente si fermerà per guardarmi e riposare all’ombra della mia chioma, alzerà gli occhi al cielo e penserà a Dio, sarò l'albero più grande del mondo".

Passarono gli anni, caddero le piogge, brillò il sole e gli alberelli divennero grandi e maestosi. Un giorno tre boscaioli salirono sulla montagna.

Il primo boscaiolo guardò il primo albero e disse: "E un bell'albero è perfetto” e in un lampo, con un colpo di accetta lo tagliò. Il primo albero cadendo pensò dentro di se: "Sto per diventare un magnifico scrigno e custodirò il tesoro più prezioso del mondo."

Il secondo boscaiolo guardò il secondo albero e disse: "E’un albero vigoroso, proprio quello che andavo cercando." In un batter d'occhio, anche, il secondo albero con un colpo di accetta cadde a terra. "Navigherò su vasti mari e oceani, pensò il secondo albero e diventerò una grande nave, degna del più grande dei re della terra."

Il terzo albero si senti venir meno quando il boscaiolo lo guardò e disse. "Qualsiasi albero per me va bene, ne devo fare solo delle assi e questo è abbastanza dritto e cresciuto” E in un attimo, con un colpo di accetta, anche il terzo albero cadde, anche lui che avrebbe preferito crescere ancora e diventare ancora più grande, anche lui che aveva sognato di rimanere sulla sua montagna, di essere un riparo per i viandanti, di richiamare alla loro mente, mentre riposavano sotto la sua chioma, Il Dio che sta nei cieli.

Il primo albero si rallegrò quando il boscaiolo lo portò dal carpentiere, ma questi era davvero troppo occupato e troppo immerso nella vita di tutti i giorni perché gli venisse in mente di fabbricare con quel legno degli scrigni. Con le sue mani callose trasformò l'albero in una mangiatoia per gli animali. Così, l'albero che un tempo era stato bellissimo, non era né ricoperto d'oro, né ricolmo di tesori; era ricoperto e pieno di fieno per nutrire gli animali affamati della stalla.

Il secondo albero sorrise quando il boscaiolo lo trasportò verso il cantiere navale ma, quel giorno, a nessuno sarebbe venuto in mente di mettersi a costruire un veliero. A forza di martellate e di lavoro di pialla, l'albero fu trasformato in una semplice barca da pesca. Troppo piccolo, troppo fragile per navigare su un vasto oceano, sui mari e perfino sui fiumi, fu portato in un laghetto lì vicino e tutti i giorni trasportava carichi di pesci che di notte venivano pescati nel piccolo lago.  

Il terzo albero divenne molto triste quando il boscaiolo dopo averlo tagliato per trasformarlo in grosse travi le accatastò nel cortile dimenticandosi di averle. "Ma che è successo, si chiese l'albero, io che desideravo soltanto rimanermene sulla montagna e di ispirare pensieri di pace e serenità a chi sostava alla mia ombra.”

Passarono molti giorni e molte notti. I tre alberi dimenticarono quasi i loro sogni…..,...
Ma, una notte, la luce d'una stella dorata illuminò quello in cui era stato trasformato il primo albero, proprio mentre una giovane donna deponeva il suo neonato in una mangiatoia. "Avrei proprio desiderato fargli una culla...", mormorò  l’uomo accanto a lei. La giovane donna strinse la mano dell’uomo e sorrise mentre la luce della stella brillava sul legno ben levigato. "Questa mangiatoia è magnifica", disse. E subito il primo albero seppe che custodiva il tesoro più prezioso del mondo.

Altri giorni e altre notti passarono...... una sera un viandante stanco ed i suoi  compagni di avventura, si ammassarono nella vecchia barca del pescatore loro amico. Mentre la barca in cui era stato trasformato il secondo albero vogava tranquillamente sul lago, i suoi occasionali ospiti si addormentarono sopraffatti dalla stanchezza. Scoppiò all'improvviso il temporale e si alzò la tempesta, la piccola imbarcazione fu presa da un tremito consapevole che, con quel vento e quella pioggia e quelle onde, non avrebbe avuto la forza di trasportare in salvo a riva tante persone!
Il viandante si svegliò. Allargò le braccia e disse: "Pace" La tempesta si calmò con la stessa rapidità con cui era scoppiata.
E subito il secondo albero seppe che stava trasportando il più grande di tutti i re, il re dei cieli e della terra.

Qualche tempo dopo, un venerdì mattina, il terzo albero fu sorpreso quando due delle sue travi furono cavate fuori dal mucchio di legna dimenticata. Trasportato in mezzo alle grida di una folla irritata e beffarda, rabbrividì quando i soldati romani inchiodarono su di lui le mani e i piedi di un uomo con il corpo e il volto sfigurato dal dolore per le percosse subite. L’albero si senti orribile e crudele per essere il mezzo di quell’orrenda tortura….. e pensò ai suoi sogni lontani mentre il sangue di quel poveretto colava su di lui e la vita di quel giovane abbandonandolo metteva fine a quell’ immenso patire.
Ma la domenica mattina, quando il sole si alzò e la terra tutta intera vibrò d'una gioia immensa, il terzo albero seppe che l'amore di Dio aveva trionfato, il figlio di Dio…… era risorto.
Ed allora il terzo albero capì che ogni volta che la gente avesse pensato e visto ciò in cui lui era stato trasformato, avrebbe pensato a Dio, al suo infinito Amore e……… e questo gli fece capire che anche i suoi sogni si erano avverati, era diventato il più grande albero del mondo, il più grande perché capace di ispirare nell’animo degli uomini i pensieri e l’amore di Dio.
m.z. fiabe e leggende di quando ancora non esisteva internet
 


venerdì 7 gennaio 2011

"state buoni se potete"

Filippo Neri nasce a Firenze il 21 luglio 1515, e riceve il battesimo nel "bel san Giovanni" dei Fiorentini il giorno seguente, festa di S. Maria Maddalena.
 La famiglia dei Neri, che aveva conosciuto in passato una certa importanza, risentiva allora delle mutate condizioni politiche e viveva in modesto stato economico. Il padre, ser Francesco, era notaio, ma l'esercizio della sua professione era ristretto ad una piccola cerchia di clienti; la madre, Lucrezia da Mosciano, proveniva da una modesta famiglia del contado, e moriva poco dopo aver dato alla luce il quarto figlio.
La famiglia si trovò affidata alle cure della nuova sposa di ser Francesco, Alessandra di Michele Lenzi, che instaurò con tutti un affettuoso rapporto, soprattutto con Filippo, il secondogenito, dotato di un bellissimo carattere, pio e gentile, vivace e lieto, il "Pippo buono" che suscitava affetto ed ammirazione tra tutti i conoscenti.
 Dal padre, probabilmente, Filippo ricevette la prima istruzione, che lasciò in lui soprattutto il gusto dei libri e della lettura, una passione che lo accompagnò per tutta la vita, testimoniata dall'inventario della sua biblioteca privata, lasciata in morte alla Congregazione romana, e costituita di un notevole numero di volumi. La formazione religiosa del ragazzo ebbe nel convento dei Domenicani di San Marco un centro forte e fecondo. Si respirava, in quell'ambiente, il clima spirituale del movimento savonaroliano, e per fra Girolamo Savonarola Filippo nutrì devozione lungo tutto l'arco della vita, pur nella evidente distanza dai metodi e dalle scelte del focoso predicatore apocalittico.
 Intorno ai diciotto anni, su consiglio del padre, desideroso di offrire a quel figlio delle possibilità che egli non poteva garantire, Filippo si recò da un parente, avviato commerciante e senza prole, a San Germano, l'attuale Cassino. Ma l'esperienza della mercatura durò pochissimo tempo: erano altre le aspirazioni del cuore, e non riuscirono a trattenerlo l'affetto della nuova famiglia e le prospettive di un'agiata situazione economica.
Lo troviamo infatti a Roma, a partire dal 1534. Vi si recò, probabilmente, senza un progetto preciso. Roma, la città santa delle memorie cristiane, la terra benedetta dal sangue dei martiri, ma anche allettatrice di tanti uomini desiderio di carriera e di successo, attrasse il suo desiderio di intensa vita spirituale: Filippo vi giunse come pellegrino, e con l'animo del pellegrino penitente, del "monaco della città" per usare un'espressione oggi di moda, visse gli anni della sua giovinezza, austero e lieto al tempo stesso, tutto dedito a coltivare lo spirito.
 La casa del fiorentino Galeotto Caccia, capo della Dogana, gli offrì una modesta ospitalità - una piccola camera ed un ridottissimo vitto - ricambiata da Filippo con l'incarico di precettore dei figli del Caccia. Lo studio lo attira - frequenta le lezioni di filosofia e di teologia dagli Agostiniani ed alla Sapienza - ma ben maggiore è l'attrazione della vita contemplativa che impedisce talora a Filippo persino di concentrarsi sugli argomenti delle lezioni.
 La vita contemplativa che egli attua è vissuta nella libertà del laico che poteva scegliere, fuori dai recinti di un chiostro, i modi ed i luoghi della sua preghiera: Filippo predilesse le chiese solitarie, i luoghi sacri delle catacombe, memoria dei primi tempi della Chiesa apostolica, il sagrato delle chiese durante le notti silenziose. Coltivò per tutta la vita questo spirito di contemplazione, alimentato anche da fenomeni straordinari, come quello della Pentecoste del 1544, quando Filippo, nelle catacombe si san Sebastiano, durante una notte di intensa preghiera, ricevette in forma sensibile il dono dello Spirito Santo che gli dilatò il cuore infiammandolo di un fuoco che arderà nel petto del santo fino al termine dei suoi giorni.
 Questa intensissima vita contemplativa si sposava nel giovane Filippo ad un altrettanto intensa, quanto discreta nelle forme e libera nei metodi, attività di apostolato nei confronti di coloro che egli incontrava nelle piazze e per le vie di Roma, nel servizio della carità presso gli Ospedali degli incurabili, nella partecipazione alla vita di alcune confraternite, tra le quali, in modo speciale, quella della Trinità dei Pellegrini, di cui Filippo, se non il fondatore, fu sicuramente il principale artefice insieme al suo confessore P. Persiano Rosa.
A questo degnissimo sacerdote, che viveva a san Girolamo della Carità, e con il quale Filippo aveva profonde sintonie di temperamento lieto e di impostazione spirituale, il giovane, che ormai si avviava all'età adulta, aveva affidato la cura della sua anima. Ed è sotto la direzione spirituale di P. Persiano che maturò lentamente la chiamata alla vita sacerdotale. Filippo se ne sentiva indegno, ma sapeva il valore dell'obbedienza fiduciosa ad un padre spirituale che gli dava tanti esempi di santità. A trentasei anni, il 23 maggio del 1551, dopo aver ricevuto gli ordini minori, il suddiaconato ed il diaconato, nella chiesa parrocchiale di S. Tommaso in Parione, il vicegerente di Roma, Mons. Sebastiano Lunel, lo ordinava sacerdote.
 Messer Filippo Neri continuò da sacerdote l'intensa vita apostolica che già lo aveva caratterizzato da laico. Andò ad abitare nella Casa di san Girolamo, sede della Confraternita della Carità, che ospitava a pigione un certo numero di sacerdoti secolari, dotati di ottimo spirito evangelico, i quali attendevano alla annessa chiesa. Qui il suo principale ministero divenne l'esercizio del confessionale, ed è proprio con i suoi penitenti che  Filippo iniziò, nella semplicità della sua piccola camera, quegli incontri di meditazione, di dialogo spirituale, di preghiera, che costituiscono l'anima ed il metodo dell'Oratorio. Ben presto quella cameretta non bastò al numero crescente di amici spirituali, e Filippo ottenne da "quelli della Carità" di poterli radunare in un locale, situato sopra una nave della chiesa, prima destinato a conservare il grano che i confratelli distribuivano ai poveri.
Tra i discepoli del santo, alcuni - ricordiamo tra tutti Cesare Baronio e Francesco Maria Tarugi, i futuri cardinali - maturarono la vocazione sacerdotale, innamorati del metodo e dell'azione pastorale di P. Filippo. Nacque così, senza un progetto preordinato, la "Congregazione dell'Oratorio": la comunità dei preti che nell'Oratorio avevano non solo il centro della loro vita spirituale, ma anche il più fecondo campo di apostolato. Insieme ad altri discepoli di Filippo, nel frattempo divenuti sacerdoti, questi andarono ad abitare a San Giovanni dei Fiorentini, di cui P. Filippo aveva dovuto accettare la Rettoria per le pressioni dei suoi connazionali sostenuti dal Papa. E qui iniziò tra i discepoli di Filippo quella semplice vita famigliare, retta da poche regole essenziali, che fu la culla della futura Congregazione.
Nel 1575 Papa Gregorio XIII affidò a Filippo ed ai suoi preti la piccola e fatiscente chiesa di S. Maria in Vallicella, a due passi da S. Girolamo e da S. Giovanni dei Fiorentini, erigendo al tempo stesso con la Bolla "Copiosus in misericordia Deus" la "Congregatio presbyterorm saecularium de Oratorio nuncupanda". Filippo, che continuò a vivere nell'amata cameretta di San Girolamo fino al 1583, e che si trasferì, solo per obbedienza al Papa, nella nuova residenza dei suoi preti, si diede con tutto l'impegno a ricostruire in dimensioni grandiose ed in bellezza la piccola chiesa della Vallicella.
Qui trascorse gli ultimi dodici anni della sua vita, nell'esercizio del suo prediletto apostolato di sempre: l'incontro paterno e dolcissimo, ma al tempo stesso forte ed impegnativo, con ogni categoria di persone, nell'intento di condurre a Dio ogni anima non attraverso difficili sentieri, ma nella semplicità evangelica, nella fiduciosa certezza dell'infallibile amore divino, nella letizia dello spirito che sgorga dall'unione con Dio. Si spense nelle prime ore del 26 maggio 1595, all'età di ottant'anni, amato dai suoi e da tutta Roma di un amore carico di stima e di affezione.
 La sua vita è chiaramente suddivisa in due periodi di pressoché identica durata: trentasei anni di vita laicale, quarantaquattro di vita sacerdotale. Ma Filippo Neri, fiorentino di nascita - e quanto amava ricordarlo! - e romano di adozione - tanto egli aveva adottato Roma, quanto Roma aveva adottato lui! - fu sempre quel prodigio di carità apostolica vissuta in una mirabile unione con Dio, che la Grazia divina operò in un uomo originalissimo ed affascinante.
 "Apostolo di Roma" lo definirono immediatamente i Pontefici ed il popolo Romano, attribuendogli il titolo riservato a Pietro e Paolo, titolo che Roma non diede a nessun altro dei pur grandissimi santi che, contemporaneamente a Filippo, aveva vissuto ed operato tra le mura della Città Eterna. Il cuore di Padre Filippo, ardente del fuoco dello Spirito, cessava di battere in terra in quella bella notte estiva, ma lasciava in eredità alla sua Congregazione ed alla Chiesa intera il dono di una vita a cui la Chiesa non cessa di guardare con gioioso stupore. Ne è forte testimonianza anche il Magistero del Santo Padre Giovanni Paolo II che in varie occasioni ha lumeggiato la figura di san Filippo Neri e lo ha citato, unico dei santi che compaiano esplicitamente con il loro nome, nella Bolla di indizione del Grande Giubileo del 2000

Prelievo forzato del 10%

Sono un piccolo imprenditore edile che opera maggiormente nel settore delle ristrutturazioni. Ieri mattina recandomi in banca ho avuto un amara sorpresa perchè ho scoperto che grazie all'articolo 25 del  decreto legge del 31 maggio 2010 n.78 dallo scorso 1 luglio i bonifici effettuati in favore dei costruttori edili da parte dei committenti che beneficiano delle agevolazioni del 36% o del 55% hanno visto applicata una trattenuta del 10% a titolo di ritenuta d’acconto. Tale trattenuta viene fatta sul totale della fattura emessa , quindi è errato dire che si tratta di una ritenuta d'acconto,  perchè in questo modo viene trattenuto il 10% anche sulle spese che un impresa ha sostenuto per eseguire un lavoro. Se poi consideriamo che a volte le imprese edili si trovano ad operare: in momenti di crisi o di elevata concorrenza per cui sono costrette a effettuare eccessivi sconti, oppure in momenti cattive condizioni metereologiche o di  errata valutazione dei lavori, che fanno p
rolungare i tempi dell'esecuzione dei lavori aumentando cosi le spese e quindi hanno un ridotto margine di utile che si aggira appunto intorno al10%, ne viene fuori che effettuando la trattenuta dl 10% sull'importo dei lavori  il costruttore ha lavorato senza utile quindi può solo fallire. Inoltre capita spesso che il committente alla fine dei lavori o non è in grado più di far fronte ai pagamenti causa eventuali verianti che fanno aumentare l'importo dei lavori previsto, o non vuole pagare i lavori per intero per una sua insoddisfazione, costringendo così il costrurttore a iniziare azioni legali nei confronti del committente che  fanno slittare se tutto va bene ( anche grazie alla lentezza della giustizia)  la riscossione dell'intero importo dei lavori. Così analizzando quest'ultima ipotesi il costuttore paga il 10% di trattenute sugli acconti che ha ricevuto dal committente. Denaro che ha dovuto usare per pagare tutte le spese sostenute per eseguire i lavori e visto
che non riceve il saldo dei lavori dove si dovrebbe ricavare un eventuale utile, il costruttore ha pagato una ritenuta di acconto del 10% sulle spese (che a volte sono debiti) e non sui guadagni e ancora una volta può solo fallire. Aziende come la mia che già faticano ad andare avanti ora si vedono tassare preventivamente anche il rimborso delle spese che sostengono per effettuare i lavori. Denaro che se resterebbe in nostro possesso ci permetterebbe di investire e lavorare. Poi versato al fisco al momento stabilito e in misura stabilita. Inoltre io mi chiedo ma  se sono un azienda che lavora esclusivamente in questo settore alla quale viene sempre applicata questa ritenuta d' acconto non è che ho versato al fisco più di quanto mi era dovuto? Forse avrei un credito con il fisco e potrei chiedere un rimborso che non si sa quando arriverebbe. Ma in questo modo non si è creato ancora debito pubblico?
Si può concludere quindi che questa trattenuta del 10% non è una ritenuta d'acconto, ma solo un appropriazione indebita di capitali che fa il fisco italiano nei confronti delle imprese edili, camuffata da sistema per combattere l'evasione fiscale, visto che in questi casi non era possibile evadere, perchè il committente era già tenuto per legge a pagare tramite bonifico accompagnato da fattura .
Ora io mi chiedo ma è mai possibile che i nostri governanti (che io stesso ho votato) con tutti i loro consulenti non  abbiano capito mentre studiavano e approvavano questa legge cosa stavano facendo? Quale grave danno stavano arrecando alle aziende che operano esclusivamente nel settore interessato dalla questa legge?
 Non voglio credere che queste persone non capiscono nulla e mi é più semplice credere che per loro è più facile colpire settori come il nostro poco organizzati e poco tutelati, indifferenti alla pubblica opinione e ai media. che non scendono in piazza a lamentarsi e che nonostante tutto continuano a lavorare con fiducia. O forse la spiegazione è ancora più semplice ed è che ormai siamo giunti alla frutta e non si sa più dove prendere il denaro che serve allo stato per far fronte all'enorme spesa pubblica che si ritrova.


http://www.tasse-fisco.com/societa/ritenuta-10-bonifici-ristruturazione-edilizia-risparmio-energetico/3264/#comments