PARROCCHIA E FAMIGLIA
DAL DIALOGO ALLA CORRESPONSABILITA’
Premessa
Il tema in
esame, ad una prima lettura superficiale sembrerebbe richiedere dei
suggerimenti su come far interagire i due soggetti in questione: la
famiglia e la parrocchia; o meglio ancora su come porre in atto una
sinergia che veda insieme la pastorale familiare e quella parrocchiale.
Mi sembrerebbe una riflessione che
rischia di risolversi in qualche buon consiglio di carattere organizzativo e di
valore estremamente limitato nel tempo e nello spazio, oltreché di grande
debolezza. Infatti la pastorale parrocchiale ha una tradizione consolidata con
una struttura delineata (vedi aspetto catechistico-liturgico-sacramentale, con
la figura del presbitero al centro), anche se mostra i segni di grandi fatiche
ed è in costante ricerca di rinnovamento; dall’altra la pastorale della
famiglia che ha fatto i suoi primi passi negli anni ’70 quando sono iniziati i
primi segni di difficoltà (referendum sul divorzio 1974 e legge sull’aborto
1978).
Prima di allora si dava per scontata
la “tenuta” della famiglia, ed era collaudata una sua integrazione con
l’organizzazione pastorale della parrocchia. Ora dopo questi 30 anni la
pastorale familiare contempla al suo attivo i “corsi di preparazione al matrimonio”
obbligatori e più o meno ritoccati in questi anni e, dove si è riusciti,
qualche iniziativa per le giovani coppie; l’istituzione di gruppi sposi e un
appuntamento annuale - dove si fa - di festa diocesana della famiglia.
Per il resto una valanga straordinaria
di indicazioni pastorali del magistero che non trovano attuazione nella vita
ordinaria della parrocchia. Una pastorale familiare perciò che vede la
famiglia come oggetto passivo coinvolta per ricevere servizi che vengono
offerti e non pensata come soggetto; con la ritornante motivazione che non è
matura, non è preparata, che le coppie disponibili sono poche.
Tale impostazione è comprensibile
perché nella mentalità e nel vissuto ecclesiale (e ancor più in quello sociale)
la tipologia dei soggetti chiamati ad interagire si ferma a due: da una parte
la singola persona e dall’altra la comunità (parrocchia, società civile,
aggregazione, club) con la conseguente impostazione pastorale che vede il
rapporto articolato tra parroco e fedeli, parroco e gruppi di vario genere. È la
stessa modalità che noi vediamo frequentemente nelle pubblicazioni di tipo
pastorale o sociale, dove la famiglia sembra essere chiamata in causa o per le
persone che la compongono, o perché fa parte di una comunità, ma non in virtù della
propria identità. Ora, la famiglia, cioè la coppia sposata, comprensiva
di figli desiderati e/o presenti, non è assolutamente riconducibile al fatto di
essere solamente una somma di due persone o più, né è identificabile con la
comunità, qualsiasi essa sia. La famiglia ha una sua identità-soggettività
con connotazioni originali proprie ed esclusive e totalmente diversa e distinta
dai due soggetti di diritto sopradescritti (persona-comunità):
- è un soggetto unitario nel quale la
reciprocità uomo-donna diventa “una caro”;
-
è una comunità intergenerazionale con relazioni di “sangue”, parentali,
che si esprime in interdipendenza, trasversalità di valori, di esigenze, di
funzioni e di ruoli;
- ha una sua continuità: la famiglia non è mai
qualche cosa di isolato nel tempo. Ha sempre un prima (di chi ha generato) e un
dopo (di chi cresce e si riproduce), è quindi una realtà dinamica in continuo
divenire dove avviene una continua integrazione di passato presente e futuro;
- ha un suo codice di vita, quello dell’amore,
che la qualifica in modo originale in tutto il suo percorso, positivo e/o
negativo;
- per noi cristiani c’è poi una “novità” che
rilancia la soggettività sopra descritta con: “la dignità sacramentale del
matrimonio”.
(1).Lo stesso evolversi storico della famiglia in modalità
diverse, accentuando l’uno o l’altro aspetto, non ne ha modificato la sostanza
(2). È per
questo motivo che la Familiaris Consortio
definisce la famiglia una “società che gode di un diritto proprio e
primordiale”, e per tale motivo la società e lo stato sono “gravemente
obbligati ad attenersi al principio di sussidiarietà”-
(3). Noi
rischiamo di chiedere allo stato e alla società civile di riconoscere la
priorità della soggettività della famiglia prima ancora di averla attuata noi
nelle nostre parrocchie.
- Che dire
perciò del rapporto parrocchia-famiglia?
Sappiamo
storicamente che la famiglia, pur nelle varie modalità assunte storicamente,
era nella società e nella Chiesa, una struttura molto forte, coesa e influente:
un soggetto di azione sociale economico e religioso così affermato da reggere
gli stessi travolgenti passaggi critici della storia. Lo stesso organizzarsi
della pastorale nel tempo non poteva che dare per scontata questa soggettività
forte (pur con le sue fatiche, debolezze, contraddizioni) ed offrire un
servizio di sostegno, aiuto e integrazione al ruolo da essa svolto.
L’articolarsi della pastorale per fasce di età (ad esempio inizialmente con il
catechismo dei bambini e poi via via negli anni fino a quello degli adulti)
era, nella maggior parte dei casi, un collocarsi accanto alla famiglia per
contribuire a completare e perfezionare una formazione religiosa, ma senza che
cessasse il dialogo tra la comunità e la famiglia con il suo ruolo
riconosciuto. In questi ultimi decenni la situazione è radicalmente cambiata:
la famiglia, nella maggior parte dei casi, non è più così. Eppure si continua a
dare per scontata una certa forma dell’istituto familiare. Viene inevitabile la
domanda:
Viene messo in atto un processo formativo
e responsabilizzante perché essa possa svolgere il suo ruolo?
Non sono mancati in questi anni
tentativi (anche se limitati) di singole diocesi o parrocchie che, per la creatività di parroci di buona
volontà, hanno realizzato nuove forme di collaborazione, che vedono la
famiglia maggiormente coinvolta nella parrocchia e parrocchie più attente alla
famiglia. Ma queste innovazioni rischiano di essere più legate al carisma
delle persone che alla prassi pastorale ordinaria.
Credo che il confronto-incontro tra
parrocchia e famiglia, non possa esprimersi solo nel promuovere qualche
iniziativa in più “per” la famiglia, salvo poi raccogliere frequenti delusioni,
o nel partire dal capitolo della pastorale per famiglie cosiddette irregolari.
Mi sembra invece che la domanda più
profonda e ultima che viene posta da questo titolo sia:
perché
questa interazione delle due pastorali?
Quale
l’obiettivo finale?
Chi sono i
soggetti pre-pastorali che sono chiamati ad interagire e perché?
La risposta
a quest’ultima domanda farà luce anche sulle due precedenti e illuminerà il
tema che si sta affrontando.
I
due soggetti in questione sono i presbiteri e gli sposi.
È vero che
la pastorale parrocchiale non coincide con il suo parroco, ma è altrettanto vero
che per il ruolo che gli è conferito per l’ordine sacro e per la collaudata
esperienza in atto, chiedere il dialogo alla pastorale parrocchiale significa
primariamente chiederlo al sacerdote. Facciamo però attenzione che non ci
chiediamo come costruire relazioni tra sacerdoti e sposati perché, per grazia
di Dio, ci sono testimonianze di legami profondi tra essi, fino alla
costruzione di significative amicizie e di buone collaborazioni pastorali. Ma
non è certamente questa la radice, anche se è un’ottima condizione, per una
nuova progettazione della pastorale che veda interagire sacerdoti e sposi in
virtù del dono-missione che scaturisce dalla loro rispettiva identità
sacramentale. Solo a questo punto saremo in grado di stabilire il dialogo tra
la soggettività della famiglia e la comunità parrocchiale.
1. Ordine e matrimonio alla luce del Magistero
Innanzitutto
va detto che ci troviamo in una situazione “sbilanciata”. Per motivi storici,
culturali e sociali, ma anche ecclesiali, si è sviluppata una produzione
teologica e pastorale abbondantissima e curata riguardo il ministero ordinato,
rispetto ad una riflessione meno articolata sul matrimonio e sul ministero (o
servizio o compito) originale degli sposi proprio in forza del sacramento che
hanno ricevuto, cioè in quanto coppia e famiglia.
Questa
situazione, di fatto, ci pone nella condizione di poter raccogliere molto
materiale sul sacerdozio, mentre ci crea qualche difficoltà riguardo la
teologia del matrimonio e il rapporto tra il ministero presbiterale e quello
coniugale, chiamati ad essere per la comunità via privilegiata per la
edificazione della Chiesa.
In questo contesto sono significativi alcuni
testi magisteriali che vi propongo.
“L’ordine e il matrimonio
significano e attuano una nuova e particolare forma del continuo rinnovarsi
dell’alleanza nella storia. L’uno e l’altro specificano la comune e
fondamentale vocazione battesimale e hanno una diretta finalità di costruzione
e di dilatazione del popolo di Dio. Proprio per questo vengono chiamati sacramenti
sociali”.
“Due altri
sacramenti, l’ordine e il matrimonio, sono ordinati alla salvezza altrui. Se
contribuiscono alla salvezza personale, questo avviene attraverso il servizio
degli altri. Essi conferiscono una missione particolare nella Chiesa e servono
all’edificazione del popolo di Dio”
. Lo stesso Catechismo degli adulti così titola la
parte dedicata al sacerdozio e al matrimonio: I sacramenti per il servizio della vita comunitaria, spiegando poi
che: “Abbiamo imparato a dire «padre» non solo a chi ci ha generato, ma anche
al sacerdote. Due paternità, una biologica e spirituale, l’altra solo
spirituale. Due sacramenti, il matrimonio che consacra la coppia e fonda la
famiglia, l’ordinazione che inserisce nell’ordine o collegio di pastori: l’uno
e l’altro direttamente finalizzati a formare e dilatare il popolo di Dio, l’uno
e l’altro segno dell’amore sponsale di Cristo per la Chiesa”.
Credo che bastino poche
sottolineature ad evidenziare questi testi.
a) Ordine e matrimonio specificano la comune vocazione
battesimale. Nulla è superiore al fatto di essere diventati “Figli di Dio” e
poterlo chiamare col nome di Padre. Da questa dignità altissima che si
condivide con tutto il popolo di Dio, “si scende” a servire, “a lavare i
piedi”, specificandosi in un servizio che scaturisce da ciascuno dei due
sacramenti.
b) Il sacramento dell’ordine è conferito ad una singola
persona per il servizio; il sacramento del matrimonio per il servizio è dato ad
una “unità di persone”: è la “relazione” che diventa sacramento.
c) Ambedue attualizzano in due modi essenzialmente
diversi lo stesso realizzarsi della alleanza di Dio con l’umanità e di Cristo
con la Chiesa. Sono “partecipazione e diversificazione” dell’unica sponsalità
di Cristo con la Chiesa.
d) Ambedue sono chiamati con ministerialità diverse ad
edificare, costruire il popolo di Dio. Cristo ha voluto due sacramenti per
“costruire” la Chiesa e nessuno dei due sacramenti può pensare di costruire
“Chiesa” da solo.
È necessario esplicitare un minimo
di fondamento teologico di tale complementarietà tra il ministero ordinato e il
matrimonio, che specifici la relazione di questi due sacramenti, come tali pari
in dignità. L’intera Chiesa, in quanto “sacramento dell’intima unione con Dio e
dell’unità di tutto il genere umano” realizza in molteplici stati di vita la
propria realtà di Sposa dell’Agnello e deriva dall’unico mistero eucaristico,
che essa ad un tempo realizza ed esprime. È dunque in riferimento all’unità
sacramentale della Chiesa che dobbiamo percepire la complementarietà dei due sacramenti.
Nell’ambito di una ecclesiologia
articolata è l’unico mistero pasquale di Cristo che si partecipa alla persona
dei credenti in diversa modalità, ad un tempo soggettiva ed oggettiva,
realizzando così l’intima partecipazione a Cristo dell’intera Chiesa, che “è il
suo corpo” (Ef 5,23; Col 1,18).
Il mistero di Cristo morto e risorto
dono alla persona umana il suo vero destino, unendolo a sé nella relazione
misterica e reale del corpo mistico. Nel battesimo la persona umana attinge il
suo significato più autentico e definitivo, corrispondente a quello iniziale
della creazione, divenendo persona “cristiforme”
( testimonia San Paolo: “ non sono più io che vivo, ma Cristo che vive in me” (Gal. 2,20).
Nel realizzare la pienezza del suo
corpo che è la Chiesa il Risorto dona alla sua sposa i doni necessari per
realizzare la pienezza della sua natura, che coincide con la relazione stessa
che essa – una, santa, cattolica ed apostolica, trova in Lui.
Il ministero ordinato tende per sua
natura alla costituzione e santificazione di ogni credente, cioè al compimento
della sua relazione con Cristo. Esso trova quindi nel “in persona Christi” la sua più autentica dimensione. Cristo stesso,
nella forma sacramentale dei ministri – secondo il loro ordine e grado –
realizza e compie per il suo popolo il mysterium
salutis. Tale mistero è mistero di relazione sponsale, secondo la teologia
dell’alleanza e dell’amore dell’Antico Testamento ripresa e rimeditata in
chiave cristologica dal Nuovo Testamento, soprattutto da Giovanni, sia nel
Vangelo, che nelle Lettere e nell’Apocalisse. Tale orizzonte sponsale fu
recepito dall’intera patristica e si riversò come chiave ermeneutica
nell’itinerario di santità che la tradizione ecclesiale ci trasmette. (L'ermeneutica
è in filosofia
la metodologia dell'interpretazione. La parola deriva dal greco antico ἑρμηνευτική (τέχνη), in
alfabeto latino hermeneutikè (téchne),
traducibile come (l'arte della) interpretazione, traduzione,
chiarimento e spiegazione. Essa nasce in ambito religioso con lo scopo di
spiegare la corretta interpretazione dei testi sacri). Così che “in persona Christi”
viene a coincidere con “in forma Sponsi”.
Il sacerdote esprime sacramentalmente la presenza di Cristo sposo della Chiesa.
In questa luce sponsale il
matrimonio si colloca come luce che illumina e sacramentalmente esprime,
compiendolo, il mistero nuziale di Cristo e della Chiesa. Cristo stesso, come e più che alle nozze di Cana,
dice e compie se stesso, il proprio mistero di morte e risurrezione (il che ci
rimanda alla radice battesimale) nella unità duale dell’uomo e della donna,
nella verità del loro mysterium nuziale.(
non più due, ma una sola carne. Marco 10:7 “I) Essi
esprimono dunque, per l’intera Chiesa e per il corpo intero dell’umanità il
mistero nuziale di Cristo, già in radice contenuto nell’atto creativo ed
affondante la sua origine nel mistero stesso della Trinità, comunione
ipostatica di Amore. (Nel Cristianesimo
il concetto neoplatonico di ipostasi svolse un ruolo fondamentale nella
formulazione della dottrina trinitaria: i caratteri specifici
di Padre,
Figlio
e Spirito
Santo furono definiti come ipostasi (sostanza personale), ma posti a un livello paritario e
non più gerarchico. Il termine "ipostasi" fu così consacrato dal concilio di Calcedonia (451) che affermò
l'esistenza in Cristo
di un'unica ipostasi-persona in due nature: umana e divina). Così gli sposi compiono e testimoniano, secondo
l’intima vocazione della natura del sacramento del matrimonio, la relazione
stessa di Cristo con ogni uomo ed ogni donna credente. La loro “persona
coniugale”, la loro intima unidualità sacramentale si esprime, a differenza del
ministero ordinato, “in forma amoris
sponsalis”. Gli sposi infatti esprimono sacramentalmente, nella loro unità
sponsale, la relazione di Cristo con la Chiesa, pasquale e salvifica.
L’unico mistero e l’unica relazione
con Cristo specifica, secondo due volti dell’unico mistero, che solo in Cristo
si fonda e solo il Risorto vive nella pienezza dell’unità senza frammentazioni,
due sacramenti che, vissuti nell’unità della sacramentalità della Chiesa,
contribuiscono a dare alla Chiesa stessa il volto della sua pienezza. I due
sacramenti sono su questa matrice partecipi, secondo volti e modi diversi,
ontologicamente e sacramentalmente differenti, anche della missionarietà della
Chiesa, secondo una diversa soggettività ecclesiale, ma costituendo entrambi,
in quanto sacramenti, un elemento essenziale della missione. È in questo modo
che essi contribuiscono a costituire quella “pienezza del suo corpo, che è la
Chiesa” (Ef 1,21-23).
Sponsalità della persona umana e
sponsalità della Chiesa si
illuminano dunque a vicenda ed illuminano l’intima relazione tra i due
sacramenti dell’ordine sacro e del matrimonio. E si comprende anche che
qualcuno pensi alla loro relazione in chiave di una complementarietà che
diviene reciprocità, poiché le due specificità non solo si completano, ma
trovano l’una nell’altra un più pieno significato della propria identità.
Poiché entrambi costituiscono
elementi essenziali dell’essere della Chiesa e della sua missione si comprende
lo sforzo che qualche teologo realizza di ricondurli, secondo il dettato
conciliare, all’unico mistero eucaristico, coincidente con l’identità
ecclesiale, che essi esprimono. Secondo il Mazzanti infatti ordine e matrimonio
derivano dall’unico mistero eucaristico, unitamente all’intera dinamica
sacramentale della Chiesa, e ad esso riconducono.
Fermiamoci ora a contemplare i doni:
“I presbiteri sono, nella Chiesa e
per la Chiesa, una ripresentazione sacramentale di Gesù Cristo Capo e Pastore,
che proclamano autorevolmente la parola, che ripetono i gesti del perdono e di
offerta della salvezza, soprattutto col battesimo, la penitenza e l’eucaristia,
che esercitano l’amorevole sollecitudine fino al dono totale di sé per il
gregge che raccolgono nell’unità e conducono al Padre, per mezzo di Cristo,
nello Spirito”.
Gli sposi
sono, in virtù del sacramento del matrimonio “segno e riproduzione di quel
legame che unisce il Verbo di Dio alla carne umana e il Cristo capo della
Chiesa suo corpo nella forza dello Spirito”.
“Per i battezzati il patto coniugale
è assunto nel disegno salvifico di Dio e diventa segno sacramentale dell’azione
di Grazia di Gesù Cristo per l’edificazione della sua Chiesa”.
“Nell’incontro sacramentale Gesù
Cristo dona agli sposi un nuovo modo di essere per il quale sono come
configurati a Lui Sposo della Chiesa e posti in un particolare stato di vita
entro il popolo di Dio”.
Saper cogliere il dono straordinario che è
dato all’uomo che è consacrato presbitero deve renderci simultaneamente capaci
di cogliere il Mistero di Dio presente nel sacramento del matrimonio,
la novità che inizia con il rito e permane nella vita degli sposi. Così scrive
lo Scheeben: “Il matrimonio cristiano, sta in relazione reale, essenziale, intrinseca
col mistero dell’unione di Cristo con la Chiesa; ha la sua radice in esso, è
intrecciato organicamente con esso, e quindi partecipa della sua natura e del
suo carattere soprannaturale. Non è semplicemente il simbolo di questo mistero,
o un esemplare che rimane fuori del medesimo, bensì una copia germogliata
dall’unione di Cristo con la Chiesa, prodotta e impregnata della medesima, dato
che non solo raffigura quel mistero, ma lo rappresenta in se stesso realmente,
ossia mostrandolo attivo ed efficiente dentro di sé”.
Si può concludere questa breve
riflessione con le parole del Card. D. Tettamanzi: “Se questo è il profilo teologico,
ben diverso è quello pastorale, perché il più delle volte la vita vissuta e la
prassi pastorale non manifestano affatto la «pari dignità» dei sacramenti. Per
questo la relazione tra i due sacramenti – ordine e matrimonio – da dato
oggettivo deve diventare dato soggettivo, deve cioè entrare e stabilirsi nella
coscienza, nella mentalità, nel costume, nell’agire concreto. Occorrerà poi
allora iniziare pazientemente e coraggiosamente con il «restituire» nella
prassi pastorale la rilevanza sacramentale al matrimonio, che – ripeto – non
può essere pensato unicamente come un «dato naturale». In un certo senso è
questione di «giustizia», di giustizia soprannaturale, che dev’essere
assicurata da tutti: dagli sposi stessi, anzi tutto, e dagli altri, a
cominciare dai presbiteri. Significativo al riguardo è l’appello rivolto da
Giovanni Paolo II agli sposi: “Parafrasando S. Leone Papa non posso evitare di
dirvi «Sposi cristiani, riconoscete la vostra eminente dignità!».
2. Ordine e
matrimonio alla luce della prassi pastorale
Oltre alla
differenza di approfondimento teologico che vede la teologia del sacramento del
matrimonio e ancor più quella della famiglia molto meno sviluppata rispetto a
quella del sacerdozio, possiamo dire che anche la pastorale, per altri motivi,
mette in evidenza che il matrimonio sacramento e la famiglia sono
“soggetto debole” rispetto al presbitero.
Questa
lettura in parallelo dei due sacramenti non vuole assolutamente sminuire la
diversità essenziale che esiste tra i due ed il ruolo totalmente diverso che
hanno nella Chiesa e nella società, ma semplicemente prendere in esame la
prassi pastorale a partire dal fatto che sono due sacramenti che dicono una
presenza efficace di Cristo nella Chiesa per il mondo, per verificare se vi è
espressa la stessa fede conseguente.
a) La preparazione al sacramento
Nella preparazione al sacerdozio c’è un obiettivo
preciso: far crescere un adulto nella fede perché “rispondendo alla chiamata ad
attualizzare Cristo Pastore, sia reso capace di esprimere questo dono a
servizio della comunità. L’obiettivo è di formare un soggetto attivo nella vita
della Chiesa per il mondo”. Vengono messe in atto strategie educative perché il
“chiamato” impari ad agire “in persona
Christi”, a comportarsi in modo da testimoniare, far trasparire il “mistero
di Cristo” che è in lui.
Nella preparazione al sacramento del
matrimonio quale obiettivo si propongono i “corsi”?
È una
domanda indispensabile perché dalla definizione dell’obiettivo scaturiscono poi
i modi, i tempi e i contenuti per realizzarlo.
Guardando la
prassi, gli obiettivi che sembrano alternarsi sono:
a) dare un minimo di preparazione per garantirsi come
Chiesa la coscienza che non abbiamo dato un sacramento della fede a degli
adulti senza far loro sapere che cosa fanno;
oppure
b) non spegnere il “lucignolo fumigante” e tentare di
recuperare culturalmente qualche elemento essenziale della fede;
c) proporre un cammino di riconciliazione e
riavvicinamento alla Chiesa offrendo un buon cammino di fede;
d) ricordare le norme morali che sono chiamati a vivere
gli sposi nel matrimonio.
Sono tutti
obiettivi che stanno sotto la soglia della verità del matrimonio sacramento.
Per esso infatti gli sposi sono chiamati a partecipare dell’amore sponsale che
unisce Cristo alla Chiesa ed a testimoniarlo nella modalità laicale.
Sono
chiamati ad essere un “soggetto ecclesiale” che è memoria, attuazione e
presenza di ciò che è accaduto sulla croce.
Sono
“trasportatori attivi” nelle strade del mondo, mediante la loro unione
coniugale, del “mistero grande” (Ef 5,32): “soggetto sociale”.
La domanda da porsi davanti ad una
coppia che chiede il matrimonio in Chiesa è:
che cosa è
chiamata a “diventare” con il sacramento del matrimonio?
La
differenza con la preparazione al sacerdozio si manifesta lampante perché
mentre i seminaristi rimangono in seminario con un obiettivo preciso verso cui
tendere e tutto è finalizzato ad esso, chi va al corso per fidanzati quale
finalità si trova proposta?
Anche per
questo il Direttorio di pastorale
familiare parlando della pastorale prematrimoniale arriva a scrivere che
“essa si trova di fronte ad una svolta storica. Essa è chiamata ad un confronto
chiaro e puntuale con la realtà e ad una scelta: o rinnovarsi profondamente o
rendersi sempre più ininfluenti e marginali”.
b) Formazione permanente
Bastano
pochi cenni per capire la diversità di impostazione tra il sacramento del
sacerdozio e quello del matrimonio.
Nel primo caso non si risparmia
tempo, energia e passione per aiutare il presbitero fin dai primi anni a tenere
viva la sua dimensione sacramentale, a ricordargli che pur nell’abitudine di
ruoli e servizi egli è “segno visibile” di un mistero d’amore, di una presenza
viva di Cristo nella Chiesa. (Ritiri, esercizi spirituali, incontri,
appuntamenti, guide spirituali, fraternità sacerdotali, collaborazioni,
letture, ecc.)
Per gli
sposati nel Signore si perde di vista immediatamente la novità dell’essere
stati costituiti sacramento; basta che ci sia un minimo d’amore che li fa
rimanere insieme, riducendo la coscienza e la grazia sacramentale al solo dato
naturale.
La
dimensione sacramentale negli sposi proprio perché inerisce pienamente al dato
umano ha bisogno ancora più di essere tenuta viva, fatta crescere, nutrita di
Parola e di Pane eucaristico perché sono stati chiamati ad annunciare Cristo.
Proprio perché la vita stessa di coppia è segno sacramentale della “presenza e
testimonianza della grazia del Salvatore, che purifica, rinnova ed eleva la
realtà umana” dovrà essere tenuta più viva la dimensione sacramentale.
c) Ruolo dei due sacramenti nella prassi pastorale
Il ruolo del presbitero è ormai
precisato e consolidato anche se non mancano fatiche nell’esercizio di ciò che
è specifico del sacerdozio e di ciò che è gestione di una organizzazione necessaria.
Per quanto riguarda il matrimonio, accanto ad enunciati magisteriali non vi è
questo approfondimento del ruolo specifico che scaturisce dal sacramento e
ancor meno la sua affermazione nella prassi.
Oltre a ciò va fatta un’altra
osservazione. La parola “Pastorale”,
senza cattiva volontà di nessuno, è finita per essere intesa nel vissuto comune
come “tutto ciò che si fa attorno alla parrocchia o al presbitero”.
Per questo
proporre a degli sposati di collaborare nella pastorale è immediatamente sinonimo
dell’aver tempo (poco o tanto) da dare per l’attività che si svolgono in
parrocchia. È certo che la parrocchia ha un suo posto importantissimo, ma se prendiamo tante affermazioni del
Concilio riscopriamo che è tutta la comunità, in tutti i suoi membri, che sono
soggetto pastorale là dove vivono e operano.
“Pastorale”
è il rendersi presente ora di Cristo Pastore risorto mediante il suo corpo (la
Chiesa, comunità di credenti), per salvare, per lavare i piedi, per incontrare,
per illuminare, per andare a pranzo con Zaccheo, per offrire il suo Corpo, la
sua Riconciliazione.
In questo
orizzonte c’è uno straordinario spazio “pastorale”, non solo in parrocchia, ma
anche fuori per tutti gli sposi che nel loro vissuto normale possono essere
“presenza di Cristo” che ama, costruttori di relazioni, costruttori di Chiesa
che vive nel territorio.
d) Visione riassuntiva
Se vogliamo condensare questa
diversità tra ordine e matrimonio nella prassi pastorale potremmo dire che i
sacerdoti, per il sacramento ricevuto, sono sempre pensati e attivati come
“soggetto, risorsa per la vita della Chiesa”. Anche se talora mostrano nel
vissuto difetti o contraddizioni rimangono a pieno titolo una “risorsa”.
Dall’altra parte il sacramento del matrimonio è considerato come un “oggetto
della pastorale” e rischia di rimanere tale. La famiglia è convocata per
circostanze (inizio della catechesi, prime comunioni, cresime, ecc.) ma non è
considerata parte organica e strutturale alla vita della parrocchia, è più
vista nell’ottica del costituire un “problema” piuttosto che una risorsa
pastorale. Molto spesso abbiamo progettazioni pastorali che non tengono in
nessun conto la presenza e il ruolo sacramentale del matrimonio e la sua
specificità viene diluita nella dizione “laici” fino a scomparire.
Alla luce della prassi si possono
elencare diverse iniziative o comportamenti o celebrazioni che dicono la fede
della comunità cristiana nel sacerdozio e dall’altra parte non intravedo,
nell’insieme dei gesti della stessa comunità, ma che dicano la fede nel
sacramento del matrimonio (solo qualche volta la celebrazione del rito), che
mostrino attenzione al mistero di Cristo che in esso si manifesta. Sembra che
tutto sia solamente un dato umano che non ha bisogno di “fede” per essere
compresa, aiutata, valorizzata come “risorsa” per l’evangelizzazione e la
pastorale.
3. Dal
dialogo alla “Complementarietà” tra il Ministero ordinato ed il “servizio
specifico” che scaturisce dal sacramento del Matrimonio
Innanzitutto vorremmo fare alcune
precisazioni circa le parole usate.
“Complementarietà” non significa
che ciascuno dei due sacramenti è in sé incompleto o inefficace senza la
presenza dell’altro, ma che ambedue sono complementari in ordine al fine
che si propongono:
tutti e due sono doni essenziali, costitutivi e
permanenti per la costruzione del Regno.
Mentre ciò
viene immediatamente in evidenza per il sacerdozio, non sembra altrettanto per
la dimensione sacramentale del matrimonio.
Non basta
che sia “celebrato” il sacramento del matrimonio per dirne tutta la verità e il
significato, ma va promosso nel suo significato costitutivo.
Così scrive il Card. Tettamanzi:
“Per questo il ministero della coppia cristiana nella Chiesa deve dirsi
ordinario e permanente: ordinario non certo nel senso di secondario o
marginale, ma nel senso di ministero connesso con la struttura stessa della
Chiesa e quindi come elemento essenziale e costitutivo della Chiesa; e
permanente, non solo e primariamente in rapporto alla singola coppia il cui
ministero è permanente in quanto connesso con uno stato stabile di vita, ma
anche e soprattutto in rapporto alla Chiesa come tale, nella quale il ministero
coniugale è qualcosa di costitutivo e perciò stesso ineliminabile”.
L’altra
precisazione che va fatta è attorno alla parola “ministero” usata per gli
sposi.
Vi è una
diversità di opinioni teologiche. Da una parte chi preferisce non usarla,
perché più specificatamente legata al sacramento dell’ordine. Dall’altra un
costante uso che se ne è stato fatto nel Magistero, particolarmente nella Familiaris Consortio. Ma al di là degli
approfondimenti teologici il dato è certo e inequivocabile: dal sacramento del
matrimonio scaturisce una missione, un compito originale e specifico degli
sposi nella Chiesa e nel mondo.
La deliberazione conclusiva dei
Vescovi italiani del 1975 affermava
“Insieme
al sacramento dell’ordine, il matrimonio è costante punto di riferimento per
l’edificazione e la vita della comunità cristiana”.
A queste
affermazioni fanno eco quelle del Convegno Ecclesiale di Palermo (1995) che
così si esprime nella sintesi conclusiva del quarto ambito sulla famiglia:
“Esplicitare
il ministero coniugale e rendere più cosciente la famiglia dei suoi compiti.
Gli sposi, in quanto ministri del sacramento, sono portatori di una specifica
ministerialità, che si manifesta nella vita della famiglia (nella fedeltà,
fecondità, comunione, educazione) e che li rende vero soggetto protagonista
della vita ecclesiale e sociale, in quanto dotati di un carisma particolare”.
Come si realizza questo “insieme”?
a) È solo un accostarsi rispettoso, un dialogo o c’è una
organicità di relazione in ordine alla Chiesa e al suo essere nel mondo?
b) È per organizzarsi pastoralmente o c’è un dialogo tra
le identità per poi armonizzarsi per la missione?
Per non
formulare ipotesi pastorali fantasiose propongo una strada sicura sotto il
profilo magisteriale. La Presbiterorum
Ordinis descrive tutto il ministero specifico del presbitero secondo i “tria munera”.
Il documento
post-sinodale Familiaris Consortio
così esprime per sintetizzare il compito della famiglia:
“Perciò la
famiglia cristiana che nasce dal matrimonio, come immagine e partecipazione del
patto di amore del Cristo e della Chiesa, renderà manifesta a tutti la viva
presenza del Salvatore del mondo e la genuina natura della Chiesa, sia con
l’amore, la fecondità generosa, l’unità e la fedeltà degli sposi che con
l’amorevole cooperazione di tutti i suoi membri. Posto così il fondamento della
partecipazione delle famiglie cristiane alla missione ecclesiale, è ora di
illustrare il suo contenuto nel triplice e unitario riferimento a Gesù Cristo
Profeta, Sacerdote e Re, presentando la famiglia cristiana come: comunità
credente ed evangelizzante, come comunità in dialogo con Dio, comunità a
servizio dell’uomo”.
Va precisato che la triplice
configurazione a Cristo Profeta, Sacerdote e Re per gli sposi acquisisce per la
grazia del sacramento del matrimonio una specificazione di quello battesimale.
Per la “ comunione di persone” dei
coniugi queste tre dimensioni assumono una modalità ed un contenuto specifico
nuovo che è dato dalla vita stessa di coppia. Perciò il servizio e la
testimonianza di uno/a sposato/a non è solamente quello di un laico qualsiasi, ma di chi è stato segnato da una grazia
e da una missione propria e originale.
Come
esplicita la Familiaris Consortio:
“La famiglia cristiana è chiamata a prendere parte viva e responsabile alla
missione della Chiesa in modo proprio e originale, ponendo cioè al servizio
della Chiesa e della società se stessa, nel suo essere ed agire, in quanto
intima comunità di vita e di amore”.
Una lettura sinottica dei “ tre doni” (sacerdotale, profetico e
regale) nell’ordine e nel matrimonio, metterà in evidenza come famiglia e
sacerdote possono far crescere l’autentica comunità cristiana che vive in un
territorio.
Ø Dimensione profetica
Il sacerdote
per il sacramento è costituito maestro autorevole nell’annuncio. Così si
esprime il Concilio: “I presbiteri in quanto cooperatori dei Vescovi hanno come
primo dovere quello di annunciare a tutti il Vangelo di Dio, cosicché, seguendo
il mandato del Signore: ‘Andate nel mondo intero e predicate il Vangelo a ogni
creatura’ (Mc 16,15), possono costituire e incrementare il popolo di Dio”.
L’annuncio
del Vangelo da parte del presbitero non può non intersecarsi con quello che è
affidato alla famiglia cristiana, che così è descritto dalle parole di Paolo VI
“La famiglia, come la Chiesa, deve
essere uno spazio in cui il Vangelo è trasmesso e da cui il Vangelo si irradia.
Dunque nell’intimo di una famiglia cosciente di questa missione tutti i
componenti evangelizzano e sono evangelizzati.
I genitori
non soltanto comunicano ai figli il Vangelo, ma possono ricevere da loro lo
stesso Vangelo. profondamente vissuto. E una
simile famiglia diventa evangelizzatrice di molte altre famiglie e
dell’ambiente nel quale è inserita”.
Le modalità
di annuncio sono straordinarie:
La coppia è
“immagine-parola” con la
quale Dio ha scelto fin dall’inizio di autopresentarsi, di autocomunicarsi, di
farsi conoscere.
La coppia
uomo-donna è la prima porta di ingresso alla conoscenza di Dio. “A
immagine di Dio lo creò, maschio e femmina li creò” (Gen 1,27).
Il Santo
Padre Giovanni Paolo II chiama il matrimonio il “sacramento primordiale”,
perché è la prima visibilizzazione di chi è Dio.
È
un’impronta che Cristo non ha cancellato.
Certo, Gesù
è il Verbo fatto Carne, è manifestazione di Dio, ma Egli non annulla questa
iniziale modalità di Dio di autoesprimersi.
In questa
epoca delle immagini, siamo arrivati a farci un’infinità di modi
di presentare Dio, facendo
però a meno di quella che Lui ha scelto.
Non solo
Cristo non ha cancellato la parola-immagine primordiale dell’uomo e della
donna, ma ha reso il loro vincolo partecipe della novità di Cristo: “Perciò
la famiglia cristiana che nasce dal matrimonio, come immagine e partecipazione
del patto d’amore del Cristo e della Chiesa, renderà manifesta a tutti la viva
presenza del Salvatore nel mondo e la genuina natura della Chiesa”.
Possiamo
dire che i due sposi per il sacramento del matrimonio sono costituiti:
“parola-carne”,
“parola-parlata”
che testimonia,
“parola che racconta”
il mistero grande dell’alleanza,
“parola che
incarna” il mistero che unisce Cristo alla sua Chiesa.
Con il
sacramento delle nozze umane gli sposi partecipano del vissuto di Cristo e lo
possono esprimere mediante le loro persone nelle loro vicende
nuziali/familiari; possono dare volto e storia alla Parola stessa fatta carne.
Il Santo Padre arriva a dire nella Lettera alle famiglie: “Non si può,
pertanto, comprendere la Chiesa come Corpo mistico di Cristo, come segno
dell’Alleanza dell’uomo con Dio in Cristo, come sacramento universale di
salvezza, senza riferirsi al ‘grande mistero’, congiunto alla creazione
dell’uomo maschio e femmina ed alla vocazione di entrambi all’amore coniugale,
alla paternità e alla maternità. Non esiste il ‘grande mistero’, che è la
Chiesa e l’umanità in Cristo, senza il ‘grande mistero’ espresso nell’essere
‘una sola carne’ (cfr Gen 2,24; Ef 5,31-32), cioè nella realtà del
matrimonio e della famiglia. La famiglia stessa è il grande mistero di Dio.
Come ‘chiesa domestica’, essa è la sposa
di Cristo. La Chiesa universale, e in essa ogni Chiesa particolare, si
rivela più immediatamente come sposa di Cristo nella ‘chiesa domestica’ e
nell’amore in essa vissuto: amore coniugale, amore paterno e materno, amore
fraterno, amore di una comunità di persone e di generazioni”.
È un
evangelizzare a livello di “essere” prima ancora che dell’”operare”.
“La vita
cristiana degli sposi deve perciò essere un’evangelizzazione credibile ed
efficace”. Essa si pone nella lunghezza d’onda del vissuto di tutti gli uomini e
donne, parla con la vita e il linguaggio della sponsalità e delle famiglie
comprensibile a tutti. “È per questo che la parola centrale della
Rivelazione, ‘Dio ama il suo popolo’, viene pronunciata anche attraverso le
parole vive e concrete con cui l’uomo e la donna si dicono il loro amore
coniugale”. L’attualizzazione di questi principi apre uno spazio consistente:
1) Come la parola-carne, parola-parabola, parola-immagine
che è il matrimonio e la famiglia può essere dono dei coniugi tra loro, del
rapporto con i figli, con le altre famiglie?
2) Quale formazione e quale identità-ruolo sono chiamati
ad assumere nelle varie situazioni della vita pastorale?
3) Come sono chiamati ad essere “parola-parlante”
mediante il loro essere nella comunità civile, dal condominio alle istituzioni
culturali?
Forse prima
di tutte queste domande dobbiamo porne una decisiva: quanto e come le nostre
coppie e famiglie cristiane sanno di essere “Parola-carne” manifestativa e
comunicativa del mistero di Dio in modo efficace?
I nostri
sposi conoscono la “specificità” di grazia del sacramento del matrimonio per il
quale sono resi idonei a testimoniare il Vangelo mediante la vita di coppia e
di famiglia, “conduttori in carne ed ossa” della parola di Dio-Amore?
Possiamo
così comprendere quanto e come gli sposi e le nostre famiglie “nutrite dalla
parola” annunciata dal sacerdote ne sono la prima attualizzazione anche perché
c’è una profonda sintonia tra la parola “amore” annunciata e l’identità della
coppia scaturita da Dio.
Ø Dimensione sacerdotale
“I
presbiteri sono consacrati da Dio, mediante il vescovo, in modo che, resi
partecipi in modo speciale del sacerdozio di Cristo, nelle sacre celebrazioni
agiscano come ministri di colui che ininterrottamente esercita la sua funzione
sacerdotale in favore nostro nella liturgia, per mezzo del suo Spirito. Essi
infatti, con il battesimo, introducono gli uomini nel popolo di Dio; con il
sacramento della penitenza, riconciliano i peccatori con Dio e con la Chiesa;
con l’olio degli infermi sollevano gli ammalati; e soprattutto con la
celebrazione della messa offrono sacramentalmente il sacrificio di Cristo”.
In Familiaris Consortio, 55 leggiamo:
“Anche la famiglia cristiana è inserita nella chiesa, popolo sacerdotale:
mediante il sacramento del matrimonio, nel quale è radicata e da cui trae
alimento, essa viene continuamente vivificata dal Signore Gesù, e da lui
chiamata e impegnata al dialogo con Dio mediante la vita sacramentale,
l’offerta della propria esistenza e la preghiera. È questo il compito sacerdotale che la famiglia
cristiana può e deve esercitare in intima comunione con tutta la Chiesa,
attraverso le realtà quotidiane della vita coniugale e familiare: in tal modo la famiglia cristiana è chiamata
a santificarsi ed a santificare la comunità ecclesiale e il mondo.
Quale
dialogo si può stabilire tra queste due identità sacramentali?
La strada
più semplice è passare in rassegna i singoli sacramenti.
Battesimo: Cristo unisce a sé come suo corpo i figli dell’uomo
per renderli partecipi della sua pienezza di vita (Gv ?). Gli sposi genitori
sono coinvolti in modo straordinario per due motivi principali: sono
attualizzazione di questa unione sponsale che unisce Cristo al suo Corpo, la
Chiesa. Essi inoltre, generando una nuova vita che è orientata a questa
appartenenza piena a Cristo, avranno l’impegno di farla crescere non solo
fisicamente, ma in quella stessa vita nuova della quale loro sono memoriale
vivo e profezia.
Per gli
sposi, ogni battesimo dei figli per è un “ravvivare” la grazia che è in loro, e
una nuova chiamata ad esprimerla nel far crescere la vita che è nata per
condurla alla pienezza della maturità, che è l’unione totale con Cristo. Ma nel
contempo si apre l’orizzonte del servizio alla vita proprio di ogni coppia di
sposi. È un servizio che è qualificato dal “conoscere” che ogni vita viene da
Dio e a Lui è destinata. I genitori sono così costituiti edificatori della vita
non solo nel farla nascere ma anche nel farla crescere unitariamente nella sua
dimensione naturale e spirituale (padri e madri nella carne e nello spirito). È
l’esercizio di una maternità e paternità che, sperimentata nella sua origine e
nel suo fine si allarga ad ogni figlio/a di questo mondo, cosicché “Mio
figlio/a/i” sono solamente l’inizio della paternità grande di Dio, della quale
i genitori sono stati resi partecipi e della quale sono chiamati ad essere
nella Chiesa e nella società un segno, una testimonianza viva, leggibile e
sperimentabile. Quanto padri e madri sono chiamati a dare alle nostre comunità
cristiane il volto della paternità e della maternità di Dio! Quanto la nostra
società ha bisogno di padri e madri che nel tessuto del vivere ordinario dicano
la preziosità e si prendano la responsabilità per l’originalità di ogni vita,
dal suo concepimento al suo termine naturale! Oggi rischiamo di rimanere con un
elenco di principi sulla vita da difendere, più che con un esercito di padri e
madri che in forza di un’esperienza straordinaria, che è la partecipazione alla
paternità di Dio siano difensori della vita e collaborino con chiunque perché
ogni vita sia accolta e fatta crescere fino a maturità.
È su questa
risorsa di sposi e genitori che si può ravvivare un dialogo tra parroci e
famiglia per una rinnovata attenzione e servizio ad ogni vita. Va riconosciuto
che è stata nella storia la presenza di queste famiglie che ha dato alla Chiesa
santi preti e laici. L’esperienza di molti parroci può testimoniare cosa
significa la presenza di una famiglia di questo tipo in parrocchia.
Cresima: è il dono dello Spirito perché il figlio viva la sua
responsabilità e testimonianza cristiana nella sua vocazione. Lo Spirito Santo,
accolto come “artefice” del cammino di configurazione della vita del battezzato
a quella di Cristo Signore, fino alla maturità. È lo stesso Spirito Santo che,
donato agli sposi nel sacramento del matrimonio e operante in essi in modo
permanente, li accompagna non solo nel donarsi la vita reciprocamente ma anche
perché nel generare, conformino la loro vita di padri e madri attualizzando per
i figli la “presenza” del Padre che è nei Cieli per educarli alla pienezza
della maturità in Cristo. Chi ha generato la vita e la riconosce animata dallo
Spirito sa che essa è chiamata a diventare un dono per gli altri; sa che c’è la
“chiamata”, la vocazione ad “occupare un posto” non da spettatore, ma da
protagonista nella Chiesa e nella società per costruire il Regno di Dio. Da qui
scaturisce la responsabilità diretta e successivamente la corresponsabilità dei
genitori che sono invitati a collaborare nella formazione cristiana dei figli,
con modi e forme diverse, perché arrivino a capire e vivere la propria
vocazione nella Chiesa e nel mondo. Senza questa dimensione di servizio i figli
rischiano di rimanere sempre “bambini” che devono essere serviti da altri nella
loro vita di Chiesa e finiscono per “servirsi degli altri” nella vita sociale.
La stessa
pastorale vocazionale talora è intesa da qualcuno solo legata al sacerdozio e
alla vita consacrata, facendo più leva sulla disponibilità dei genitori a
donare i loro figli per la consacrazione religiosa, che intrecciare il percorso
dei genitori con quello del divenire dei figli per renderli capaci di amare e
servire, aprendosi alla molteplicità della vocazione. “La famiglia deve formare
i figli alla vita in modo che ciascuno adempia in pienezza il suo compito
secondo la vocazione ricevuta da Dio “.
Eucaristia: non credo necessario approfondire il legame del
presbitero con l’eucaristia perché è un argomento ampiamente trattato e per
molti costituisce anche la fonte di una grande spiritualità.
Richiamo
solamente il legame tra matrimonio ed eucaristia perché può motivare e far
crescere il dialogo-collaborazione tra sacerdoti e sposi, per una pastorale con
la famiglia. “Nella cena eucaristica ‘prende carne’, si realizza il simbolo
delle Nozze tra Dio e l’umanità, tra Cristo e la sua sposa: i due saranno una
carne sola”. E questo in modo che si compie in maniera insuperabile la realtà
nuziale. Se c’è un luogo e un momento in cui si può vedere e comprendere il
cuore della realtà nuziale questo è, secondo alcuni padri della Chiesa,
l’eucaristia, mistero nuziale per eccellenza. “Convito nuziale del suo (Figlio)
Amore” Per cui leggere l’eucaristia è leggere insieme la nuzialità, sua interna
dimensione; ma anche, a sua volta, la comprensione della nuzialità implica e
comporta l’approfondimento eucaristico, perché nell’eucaristia la nuzialità
umana ha il suo fondamento e, perciò stesso, il suo riferimento archetipale”.
Sulla stessa lunghezza d’onda si pronuncia l’esortazione post-sinodale sulla
famiglia: “L’eucaristia è la fonte stessa del matrimonio cristiano. Il
sacrificio eucaristico, infatti, ripresenta l’alleanza d’amore di Cristo con la
Chiesa, in quanto sigillata con il sangue della sua croce. È in questo
sacrificio della nuova ed eterna alleanza che i coniugi cristiani trovano la
radice dalla quale scaturisce, è interiormente plasmata e continuamente vivificata
la loro alleanza coniugale”. Ne consegue che il “mistero d’amore” e di alleanza
che Cristo ci offre con il suo corpo per unirci a sé, è attualizzato e reso
presente in modo efficace anche “mediante” la coniugalità degli sposi. Infatti
la loro alleanza d’amore è “abitata” dall’alleanza di Dio con l’umanità e di
Cristo con la Chiesa e con la loro relazione d’amore rendono presente
sacramentalmente lo stesso mistero d’amore che si cela nell’eucaristia. Non
attualizzano solamente l’essere “corpo donato per amore” l’uno per l’altro, ma
con la loro unità sono “nutrimento” d’amore per le relazioni ecclesiali e
sociali, sono ‘esportatori di alleanza divina’. La coppia è chiamata con e come
l’eucaristia ad essere “pane spezzato” per la Chiesa e la società, perché
Cristo le compenetri totalmente.
Alla luce di
queste semplici riflessioni si può immaginare cosa significhi preparare e
accompagnare un figlio alla prima comunione ed ancor più, cosa significhi la
partecipazione della coppia e della famiglia alla messa domenicale. Vanno
all’eucaristia per rinnovarsi, rimodellarsi dall’intimo del cuore fino
all’espressione più esterna per poter essere loro stessi, singolarmente e come
coppia, “corpo donato per amore”. Questo non solo nella reciprocità uomo-donna
ma, ciascuno dei due è corpo-persona che dovunque è presente per qualsiasi
motivo è un “segno eucaristico”: persona-dono. Ciò esprime la stretta coerenza
interna e continuità tra eucaristia, vita di coppia-famiglia, vita di società,
vita di parrocchia. Anche gli sposi per “un solo corpo ricevuto” diventano
costruttori di comunità cristiana, di fecondità relazionale e di
socializzazione nella società civile.
Riconciliazione: Per questo sacramento, mentre vi è un rapporto unico
e singolare con il sacerdote perché in lui si attualizza il mandato di Gesù a
riconciliare i peccatori, per il matrimonio i coniugi sono chiamati a vivere la
riconciliazione come dono dato dallo Spirito alla loro vita di coppia. Il primo
‘agente’ di riconciliazione nella coppia è il coniuge, non solo per un perdono
‘a misura umana’, ma anche per il dono di un maggiore amore nei confronti
dell’altro. Ciò significa anche che questa dinamica di conversione tocca non
solo colui o colei a cui viene perdonato, ma anche chi ha subito il torto. Egli
è chiamato ad una accoglienza spirituale, si assiste alla trasformazione
spirituale del coniuge che perdona.
E’ questo
anche il luogo, reale e simbolico per la natura del sacramento del matrimonio,
dove si esprime la fedeltà all’amore e la fedeltà dell’amore.
Tale
dimensione di riconciliazione, che ha modalità e tempi diversi dalla
riconciliazione sacramentale, ma che è pervasa dalla stessa natura dell’amore
purificatore, trova nella famiglia il luogo non solo di riconciliazione “tra”
membri della famiglia, ma anche “con”: con i vicini, con ogni persona (si pensi
ad esempio a rancori tra parenti, conoscenti, alle faide familiari, e alla
portata sociale di gesti di perdono dei familiari delle vittime della violenza
e della mafia).
Un’osservazione
di carattere più sacramentale: il perdono che il coniuge offre (anche nel caso
estremo del coniuge che perdona chi ha tradito o chi ha voluto il divorzio)
mette in atto il dono dello Spirito Santo dato ai due; non è solo un esercitare
la fedeltà giuridica al proprio matrimonio, ma una grazia di riconciliazione
ricevuta e sempre offerta. Senza la riconciliazione come contenuto e regola di
vita si finisce per “adattarsi alla situazione” o difendendosi quando le
richieste dell’altro e dell’altra sorpassano la misura dovuta, come in una
buona cooperativa dove si spartiscono a metà guadagni e fatiche.
La
relazione, componente essenziale della vita coniugale per poter accedere al
dono di amarsi “l’un l’altro come Cristo ci ha amati”[1][48], deve
passare inevitabilmente dalla riconciliazione. Se questa è la struttura di vita
della coppia, la comunità parrocchiale sarà permeata, mediante le coppie e le
famiglie, da un evidente stile di riconciliazione, accoglienza, perdono
reciproco a tutti i livelli a tal punto da far riscoprire e vivere in pienezza
il sacramento della penitenza come il luogo celebrativo di una riconciliazione
che viene da Dio stesso ma che si è potuta respirare nella comunità
parrocchiale riconciliante con tutti. A questo aspetto intraecclesiale va
aggiunto lo stile di riconciliazione e di pace che gli sposati sono chiamati a
portare nella società e nei vari ambienti di vita in virtù della grazia di
riconciliazione che sono “costretti” a vivere perché sono sacramento
dell’alleanza eterna. Condividono con loro lo stile e la missione della
riconciliazione gli stessi figli.
Unzione dei malati: è Cristo che si fa presente là dove c’è una vita che
soffre e mediante il ministero del sacerdote porte il suo conforto e sostegno.
Oggi sempre di più, questo mandato del presbitero, rischia di essere un
esercizio “solitario”, una testa senza corpo che dice l’attenzione di Cristo
alla vita sofferente. Anche in questo caso il dialogo tra presbiteri e
coppia/genitori si fa collaborazione e condivisione di missione. Chi ha
generato la vita e è stato reso partecipe della paternità di Dio creatore è
chiamato ad esprimere il suo amore e la sua attenzione alla vita soprattutto
quando essa è messa alla prova e incontra le difficoltà della sofferenza, della
malattia. I primi “curatori” della vita ammalata sono coloro che hanno generato
la vita. Chi ha goduto e sofferto un parto, chi conosce sulla propria pelle il
valore di una vita (di un figlio, di un marito) non può non intravedere in ogni
vita il dono prezioso che viene dall’alto; anzi si muoverà perché tutta la
comunità ecclesiale e sociale ponga il massimo di attenzione ad ogni vita. La
cura amorevole degli sposi/genitori a chi è malato in parrocchia precederà e
seguirà ogni unzione dei malati.
Per
completare la descrizione della dimensione sacerdotale nel presbitero e negli
sposi dovremmo parlare della preghiera. Pur non potendo sviluppare questo
argomento mi permetto solamente di invitare noi sacerdoti, in vario modo
impegnati nella liturgia a porre attenzione ad una espressione della Familiaris Consortio: “Il matrimonio cristiano… è in se
stesso un atto liturgico di glorificazione di Dio in Gesù Cristo e nella
Chiesa”[1][49]. In
quest’ottica prende significato particolare educare alla preghiera e
trasformare tutta la vita in sacrificio spirituale.
Ø Dimensione regale
La
descrizione di questo compito per i sacerdoti viene così espressa dal Concilio:
“Esercitando l’ufficio di Cristo Capo e Pastore per la parte di autorità che
spetta loro, i presbiteri, in nome del vescovo, riuniscono la famiglia di Dio
come fraternità animata nell’unità, e per mezzo di Cristo la conducono al Padre
nello Spirito”[1][50]. Per questo
mandato egli svolge il suo servizio in varie modalità con l’attenzione di non
limitarsi alla cura dei singoli ma di impegnarsi nella formazione di una
autentica comunità cristiana.
Per quanto
riguarda i laici, punto di partenza significativo è quanto dice il Concilio:
“Fattosi obbediente fino alla morte e perciò esaltato dal Padre, Cristo è
entrato nella gloria… Questo suo potere Cristo l’ha comunicato ai discepoli,
perché anch’essi siano stabiliti nella libertà regale… perché servendo Cristo
anche negli altri, conducano umilmente e pazientemente i loro fratelli a quel
re, servire il quale è regnare”.
Questa
dimensione di servizio è segnata per il sacramento del matrimonio da una
modalità e da un contenuto specifico nel loro essere dono per la Chiesa e la
società: “La famiglia cristiana è chiamata a prendere parte viva e responsabile
alla missione della Chiesa in modo proprio e originale, ponendo cioè al
servizio della Chiesa e della società se stessa nel suo essere ed agire in
quanto intima comunità di vita e di amore. Se la famiglia cristiana è comunità,
i cui vincoli sono rinnovati da Cristo mediante la fede e i sacramenti, la sua
partecipazione alla missione della Chiesa deve avvenire secondo una modalità comunitaria: insieme, dunque, i coniugi in quanto coppia, i genitori e i figli in quanto famiglia, devono vivere il
loro servizio alla Chiesa e al mondo. Devono essere nella fede ‘un cuore solo e
un’anima sola’ (At 4,32) mediante il comune spirito apostolico che li anima e
la collaborazione che li impegna nelle opere di servizio alla comunità
ecclesiale e civile”.
“In questa
prospettiva è facile comprendere quanto sia necessario promuovere la comunione
tra le famiglie cristiane nella diocesi e nella parrocchia, chiamata
quest’ultima a divenire veramente ‘famiglia di famiglie’,…Una parrocchia è
fedele alla sua missione pastorale nella misura in cui aiuta concretamente le
famiglie a vivere nella comunione la vita comunitaria secondo la ricchezza
delle sue molteplici espressioni. In tal modo si introduce nella comunità
ecclesiale uno stile più umano e più fraterno di rapporti personali che della
Chiesa rivelano la dimensione familiare, e del mistero della Chiesa, la sua
‘maternità’, il suo esser ‘famiglia di Dio’: potrà così destarsi negli uomini
divisi e dispersi la nostalgia dell’«unico gregge sotto un solo pastore»
Vi è quindi
un apporto sacramentale specifico dei coniugi e della famiglia alla costruzione
della comunità. Le componenti essenziali del vivere della famiglia,
complementarietà, corresponsabilità, compresenza, compartecipazione, possono
diventare apporto essenziale nel costruire la famiglia dei figli di Dio fino ad
essere la famiglia stessa “a dare forma” alla comunità ecclesiale e civile.
Il dono
comunionale della coppia e della famiglia è risorsa permanente per costruire ed
animare le relazioni dei figli di Dio che formano l’unico corpo di Cristo.
Diventa comprensibile allora l’espressione della Familiaris Consortio: “Per questo la famiglia riceve la missione di custodire, rivelare e comunicare
l’amore, quale riflesso vivo e reale partecipazione dell’amore di Dio per
l’umanità, di Cristo Signore per la Chiesa sua sposa”[1][54].
È
interessante notare che la famiglia, fonte e luogo di comunione, è chiamata a
svolgere il suo compito simultaneamente nella comunità ecclesiale e civile
esprimendo così la coincidenza perfetta tra identità (cristiana, ecclesiale) e
la missione (l’essere nel mondo, nel territorio). In questo suo compito la
famiglia non ha bisogno di tempi o di ruoli particolari, ma è missione semplicemente manifestando e
partecipando ciò che è.
Tali
contenuti vengono ben esplicitati nel Direttorio
di Pastorale Familiare, nel
capitolo sulla missione della famiglia nella Chiesa e nella società. Ne riporto
solamente la parte relativa al fondamento sacramentale e sociale del compito
della famiglia cristiana: “Per la famiglia cristiana, inoltre, la
partecipazione alla vita della società affonda le sue radici nella stessa
grazia del sacramento del matrimonio, il quale, assumendo pienamente la realtà
umana dell’amore coniugale, abilita e impegna i coniugi e i genitori cristiani
a vivere la loro vocazione di laici, e pertanto a cercare il Regno di Dio
trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio. Di conseguenza il
compito sociale e politico della famiglia cristiana rientra in quella missione
regale o di servizio, alla quale gli sposi cristiani partecipano in forza del sacramento
del matrimonio, ricevendo a un tempo un comandamento ai quali non possono
sottrarsi ed una grazia che li sostiene e li stimola”.
Se queste
sono le verità conosciute e proclamate, si può progettare la pastorale o
promuovere un dialogo tra pastorali, o parlare di costruzione della comunità
ecclesiale o civile prescindendo dalla famiglia o parlando solo genericamente
di laici? Accanto a questa dimensione di “servizio alla comunione” per la
Chiesa e per la società, andrebbe sviluppato il servizio alla “persona” del
quale abbiamo già dato qualche spunto di riflessione parlando del battesimo e
che vede la famiglia coinvolta in tutto ciò che riguarda la vita, le persone
nella loro singolarità, dal concepimento alla loro morte naturale. Per un
approfondimento organico di questo tema rimando al documento Familiaris Consortio e alla Evangelium Vitæ.
Mi permetto
di concludere questo aspetto della regalità richiamando un particolare che può
costituire non solo luogo di incontro e complementarietà tra preti e sposi, tra
parrocchia e famiglia, ma può diventare strumento di pastorale: la casa.
Le case
delle famiglie cristiane dei primi secoli erano il luogo dell’incontro, della
costruzione di relazioni cristiane, di conversione di parenti e amici, fino
alle celebrazioni dell’eucaristia. Oggi le case rischiano di essere supercurate
per se stesse e non per la preziosità del sacramento che vi “abita”. Vengono
benedette, sono talora incontro per gruppi familiari ma raramente sono il luogo
della “buona notizia”, della comunicazione e testimonianza di fede, della
dimostrazione di fraternità e amicizia.
La casa, pur
piccola, va riportata nel vissuto della famiglia cristiana e della comunità
parrocchiale ad essere “strumento pastorale”, mezzo per l’edificazione del
Regno di Dio. “Nel nostro tempo, così duro per molti, quale grazia essere
accolti in questa piccola Chiesa, secondo le parole di S. Giovanni Crisostomo,
entrare nella sua tenerezza, scoprire la sua maternità, sperimentare la sua
misericordia, tant’è vero che un focolare cristiano è il volto ridente e dolce
della Chiesa!”[1][56].
4. Quale
percorso pastorale per una corresponsabilità tra parrocchia e famiglia e
soprattutto per una pastorale “con” la famiglia.
Preliminari
q La prospettiva pastorale sopra descritta passa dalla
conversione. Si tratta di ravvivare la nostra coscienza nella dimensione
“misterica” della Chiesa e in essa del significato e ruolo sacramentale non
solo del sacerdozio ma anche del matrimonio. Si tratta di riesprimere la fede
nella presenza di Cristo che agisce “nel e col” sacramento del matrimonio, non
meno di quanto agisce, sia pur in modo diverso, nel sacerdozio.
q In questo contesto di recupero veritativo-fondamentale
per la pastorale va ripensata la relazione tra verginità e matrimonio per riscoprire
che in ciascuna delle due forme di vita si compie il disegno di Dio “La
rivelazione cristiana conosce due modi specifici di realizzare la vocazione
della persona umana, nella sua interezza all’amore: il matrimonio e la
verginità. Sia l’uno che l’altra nella forma loro propria sono una
concretizzazione della verità più profonda dell’uomo, del suo essere a immagine
di Dio”.
q Nello stesso tempo va promosso un approfondimento
teologico della relazione tra i due sacramenti dell’ordine e del matrimonio in
vista della missione. Questo consentirà innanzitutto di ampliare la teologia
del matrimonio e della famiglia ma, nello stesso tempo, di avere più
possibilità di affrontare alla radice la motivazione sottesa alla
“corresponsabilità” dei due sacramenti per il Regno. Senza questo contributo si
rischia di ridurre la relazione ad un “coordinamento” pastorale. Mi permetto di
suggerire che siano inviati agli studi teologici superiori su matrimonio e
famiglia anche persone sposate o coppie, perché con la loro sensibilità e la
loro vita possono dare un contributo significativo di riflessione teologica e
di modalità espressiva, oltreché poter essere poi trasmettitori efficaci del
“vangelo del matrimonio” a fidanzati e sposi.
q Va data più attenzione alla formazione teologica e
pastorale dei seminaristi intorno al matrimonio e alla famiglia. “I compiti che
attendono i futuri sacerdoti in questo campo del ministero sono, rispetto al
passato, molto più delicati, più esigenti e soprattutto più complessi. Si
tratta da una parte di annunciare la novità e la bellezza della ‘verità divina
sulla famiglia’ (cfr Giovanni Paolo II,
Lettera Gravissimum sane alle
famiglie, 1994, 18. 23), di accompagnare la famiglia cristiana verso la
perfezione della carità e dall’altra di fronteggiare situazioni di crisi…”[1][58]. La novità
e la bellezza della famiglia è proprio la sua soggettività pastorale voluta da
Cristo con il sacramento del matrimonio. I seminaristi rischiano di essere
formati ad un esercizio nel sacerdozio come “sacramento solitario” nella prassi
pastorale, prescindendo dalla risorsa che è il matrimonio per la pastorale. Mi
permetto di segnalare su questo argomento un significativo contributo di Pino
Scabini[1][59].
q Un ultimo elemento che dovrebbe precedere e
accompagnare la pastorale con la famiglia è la promozione di una dimensione
sponsale della spiritualità del presbitero, in ordine al fondamento teologico
che sopra abbiamo indicato. L’immagine della Chiesa Sposa e di Cristo Sposo –
di origine biblica, realizzata già nella creazione, cara ai Padri e quindi non
confondibile con altro tipo di “analogia” od immagine – che sta a fondamento
della verità stessa del matrimonio cristiano (cfr Ef 5, 31-32) può divenire
feconda in ordine alla interiorizzazione del ministero ordinato, come sopra
abbiamo indicato sommariamente. Ed inoltre essa diviene feconda in ordine alla
reciproca comprensione dei due misteri: il sacerdote che si pensi Sposo della
Chiesa in persona Christi guarderà al
sacramento del matrimonio come alla forma personale dell’amore nuziale di
Cristo e della Chiesa e le implicanze pastorali di questo, che riconducono
all’unico mistero eucaristico, sono facilmente intuibili. In questa luce sarà
più facile per il presbitero vedere nel sacramento del matrimonio e nelle sue varie
dimensioni una forma elettiva del mistero nuziale che eucaristicamente celebra
e guardare al concreto della coppia/famiglia come al paradigma di una
ecclesialità relazionale e viva. L’orizzonte della comprensione teologica pone
al di là degli immediati ostacoli psicologici e di quelli stratificati dalla
storia. Ma su questo ci proponiamo di riflettere in un intervento specifico di
prossima pubblicazione. La percezione della famiglia come “modello” relazionale
dell’essere Chiesa opera una significativa trasformazione dell’approccio
pastorale del sacerdote nei confronti della famiglia, un approccio che ne
valorizza ad un tempo l’ecclesialità e la soggettività e la cui fecondità
pastorale appare evidente, con un minimo di riflessione, agli occhi di tutti. Il
presbitero “è chiamato, pertanto, nella sua vita spirituale a rivivere l’amore
di Cristo Sposo nei riguardi della Chiesa sposa. La sua vita deve essere
illuminata e orientata anche da questo tratto sponsale, che gli chiede di
essere testimone dell’amore sponsale di Cristo, di essere quindi capace di
amare la gente con cuore nuovo, grande e puro, con autentico distacco da sé,
con dedizione piena, continua e fedele, e insieme con una specie di gelosia
divina (cf. 2 Cor. 11,2), con una tenerezza che si riveste persino delle
sfumature dell’affetto materno, capace di farsi carico dei ‘dolori del parto’
finché ‘Cristo non sia formato’ nei fedeli (cf. Gal. 4,19)[1][60].
Proposte
q Verso percorsi differenziati. Nel panorama delle
famiglie e dei fidanzati che vengono a chiedere di sposarsi in chiesa, abbiamo
una grande diversità di collocazione nella fede e talora nella stessa
maturazione umana. La nostra proposta, invece, è uguale per tutti. Abbiamo
individuato un “minimo” da offrire che salvi l’identità del matrimonio che
dobbiamo dare e la nostra coscienza pastorale si sente a posto. Va superato
questo schema, cominciando ad offrire, almeno a qualcuno, a chi vuole o a chi è
disponibile, “tutto” del sacramento del matrimonio e mettendoli poi nelle
condizioni reali di poterlo vivere con un accompagnamento ed una spiritualità
specifica. Non si può ipotizzare di promuovere la soggettività del sacramento
del matrimonio se non vi è la formazione adeguata. Detto in altre parole, la
famiglia in vari momenti è “oggetto” di attenzione e servizio pastorale della
Chiesa per poter diventare ed essere permanentemente un “soggetto”. Quindi non
deve venire meno l’offerta di “servizio” (parola, eucaristia, riconciliazione,
catechesi specifica per gli sposi e la famiglia) ma il tutto deve essere
finalizzato al far diventare la famiglia una risorsa per la Chiesa del
territorio.
q In questa pastorale differenziata e alla luce della
teologia del sacramento del matrimonio e in particolare della storia del rito
del matrimonio va ripensato il fidanzamento come tempo di vera e propria
iniziazione formativa per preparare ad una “missione specifica”. È la proposta
di superare, almeno per alcuni, i corsi di preparazione al matrimonio e far
coincidere la crescita umano-affettiva dei fidanzati con la crescita
spirituale-pastorale mettendo in atto la dinamica vocazionale: “Dall’amore come sacramento (fidanzamento) al sacramento dell’amore (il matrimonio”.
Con lo stesso criterio per cui mentre si propone qualcosa a tutti si cerca di
offrire tutto a chi vuole, cioè la possibilità di approfondire la propria
grazia sacramentale e cominciare ad esercitare in parrocchia e nel territorio
la missionarietà specifica. Si tratta così di offrire realmente esempi ed
ideali di vita per tracciarne il cammino per le nuove generazioni. Creare
perciò una formazione permanente approfondita e specifica.
q Iniziare con alcune coppie/famiglie a progettare
insieme la pastorale o nel suo insieme, o in parte. Ad esempio prendere un
aspetto della pastorale come un camposcuola o una festa o un percorso
catechistico e progettarlo insieme con qualche famiglia. Naturalmente in questa
progettazione va tenuto in conto lo specifico che è chiamato a dare il
presbitero ma anche quello che può dare la coppia di sposi o la famiglia. È l’obiettivo
che si propone un Convegno che si terrà a Cagliari (22-26 giugno 2001) e che
avrà per tema: “Progettare la pastorale
con la famiglia in parrocchia”. Si cercherà, mediante lezioni e laboratori,
di fare interagire il contenuto teologico del sacramento del matrimonio e i
compiti che ne derivano con il vissuto concreto di una parrocchia. Individuare,
approfondire insieme, sacerdoti e laici sposati, ciò che di specifico sposi e
figli possono apportare di “dono-risorsa” nel loro essere nel territorio in tutte
le sue espressioni di vita sociale.
q Mentre si inizia a valorizzare e specificare il dono
sacramentale che è il matrimonio e la famiglia per la pastorale va data
attenzione alle situazioni matrimoniali difficili e irregolari.
q Va anche promossa la formazione di “operatori di
pastorale familiare” da distinguere in modo netto da una “operatività” che è
chiamata ad avere ogni famiglia. Anzi si può meglio dire che, l’obiettivo di
ogni operatore di pastorale familiare è quello di promuovere la soggettività di
ogni famiglia che è chiamata ad essere “soggetto” anche senza far nulla di
specifico in parrocchia o dintorni. La finalità di questi operatori è di
collaborare in modo più stretto con i sacerdoti e la parrocchia particolarmente
per quegli aspetti che riguardano la famiglia stessa: formazione dei fidanzati,
accompagnamento delle famiglie, accostamento delle famiglie in difficoltà,
pastorale generale, pastorale familiare, catechesi con la famiglia, pastorale
dei malati[1][62]. Va posta
molta attenzione a tenere un alto livello di formazione per questi operatori,
proprio per l’obiettivo che si propone il loro servizio.
5. Questo
contesto culturale “invoca” il matrimonio e la famiglia vissuto e testimoniato
come Dio lo ha definito: “Cosa molto buona” (Gen 1,31)
La più
semplice descrizione circa la situazione della cultura odierna, credo ci venga
offerta significativamente da una pubblicazione intitolata “Vado a scuola” (Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Dipartimento degli Affari Sociali, Osservatorio Nazionale per
l’Infanzia, pubblicato nel novembre 2000, che è stato distribuito ai genitori
degli alunni delle scuole pubbliche del I anno della scuola di base) che vuole
aiutare i bambini a capire che cosa è la famiglia oggi. “Uno dei fenomeni più
rilevanti del nostro tempo è la trasformazione della famiglia. Un tempo vi era
un unico modello di nucleo familiare, quello formato da padre, madre, figli.
Ora le famiglie sono molte: oltre a quelle tradizionali, vi sono famiglie
formate da un solo genitore, separate, risposate, adottive, affidatarie. I
genitori possono essere sposati, conviventi oppure vivere ciascuno per conto
proprio. Il panorama è vario e in evoluzione, tanto più che gli immigrati
portano in Italia costumi e tradizioni molto lontani dai nostri. I bambini, che
sono i primi a cogliere i mutamenti, l’hanno ormai capito: non vi è una regola
che valga per tutti e il matrimonio o la convivenza dei loro genitori non sono
necessariamente eterni. Può sempre accadere che papà e mamma che oggi si
vogliono bene, domani si separino…” Credo inutile ogni commento al testo ma si
evidenzia ancor più che il matrimonio e la famiglia cristiana è in questo
momento storico un “buon annuncio” che viene offerto per “salvare” l’uomo e la
donna nella loro identità e nella loro relazione. Infatti prima ancora del
matrimonio è messo oggi in questione il “genere” (maschile-femminile), il fatto
di sposarsi, con chi sposarsi, quando sposarsi, per quanto tempo, fino al “se
vale la pena sposarsi”. Si vanno allungando le fila di coloro che temono il
matrimonio, più che vederlo come un ideale di vita, il luogo del realizzarsi
del maschile e del femminile, se le statistiche indicano un calo di “nuzialità”
che si avvia verso il 30% della popolazione[1][63].
Se i
monasteri hanno salvato e diffuso la “cultura”, oggi le famiglie cristiane sono
chiamate a salvare la “natura” e diffondere la bellezza della coniugalità.
Perciò, pur preoccupando pastoralmente la crescita in percentuale delle
situazioni cosiddette “irregolari”, devono preoccuparci molto di più quelle
famiglie e coppie che “non sanno di niente”, sale senza sapore, non sono “cosa
buona”, ma solamente la conservazione di un “istituto di diritto”, senza
mostrare la forza ideale nella quale si vede il riflettersi dell’immagine di Dio
e il coinvolgimento dell’amore di Cristo per la Chiesa.
Per questo
il Santo Padre nel discorso tenuto ai Vescovi italiani nell’Assemblea Generale
(maggio 2001) ha nuovamente sollecitato: “Occorre incrementare la pastorale
della famiglia, non limitandola al periodo della preparazione al matrimonio o
alla cura di qualche specifico gruppo. È indispensabile che le famiglie stesse
diventino maggiormente protagoniste nell’evangelizzazione e nella vita
sociale…”. Per i sacerdoti e per la parrocchia interagire con la famiglia
significa aver capito che il futuro dell’evangelizzazione dipende in gran parte
dalla famiglia. Perciò l’invito conclusivo è che mentre crescono le varie forme
di ministerialità che si affiancano al faticoso compito dei presbiteri è tempo
di valorizzare il sacramento del matrimonio come dono prezioso che il Signore
ha fatto alla sua Chiesa nel mondo.
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