Cristo e’ la nostra speranza
« Paolo, servo di Dio e
apostolo di Gesù Cristo, per la fede
... e nella speranza della vita eterna, che Dio, il quale non mentisce, promise
fin dai tempi antichi, e che a tempo opportuno manifestò la sua parola, per mezzo
della predicazione che è stata affidata a me, per ordine di Dio
nostro salvatore ... » (Tit. 1, 1-3)
Noi cristiani siamo chiamati ad annunziare la “Buona Novella”,
non cattivi presagi, né dottrine catastrofiche, oppressive e punitive. La
speranza cristiana, fondamento del nostro annuncio, non è l’ottimismo suicida
dell'autorealizzazione dell'uomo senza Dio e neppure è la passività e il
conformismo di chi pensa che le cose si faranno da sole o che Dio le farà al
posto nostro. Ci sono persone che si pongono sempre come interlocutori di
problematiche di cui, qualsiasi risposta, è sempre solo esasperante; la speranza cristiana si fonda
sull'annunzio di Dio amore, per mezzo del quale, sempre, in qualsiasi
circostanza, si può fare il meglio: “ AMARE”.
La nostra speranza si fonda su Cristo crocifisso,
risorto e asceso al cielo: ma che ora vive nella Chiesa per portare al Padre
l’umanità e la creazione. Vivere verso
il Padre è il fondamento della nostra speranza.
L'apostolo Paolo si definisce come predicatore della
speranza, speranza che aiuta a vivere il
“ già e non ancora “ della restaurazione in Cristo. Questa serena tensione
esistenziale, da significato alla vita. L'uomo ha bisogno che gli parlino di
questa speranza.
Di altre cose è stato già scritto abbastanza ed anche
meglio di quanto possiamo dire noi.
Non si sa e non si è credibili nel predicare la
speranza cristiana quando questa non è vissuta, creduta sperimentata e
praticata in prima persona; la testimonianza del predicatore è parte
integrante della Parola, ammesso che della Parola colui che predica ne sia
segno personale e non semplicemente la voce che asetticamente annuncia, ma
grazie ad un carisma intimamente vissuto, pur con tutti i limiti della
persona, ne sia annuncio e testimonianza, consapevole che non le sue parole, ma
la Parola è la sola che arriva al cuore dell’uomo, la sola che converte e salva.
Chi non vive la dinamica della speranza, in una
tensione verso un incontro definitivo e verso un battesimo o immersione in
Cristo, avrà bisogno di parlare di altro: ma questo non è predicare Cristo, è
predicare se stesso, le proprie convinzioni, le paure che ci assillano. Chi non
ha incontrato Cristo come speranza, cerca miti, immaginazioni, profeti,
rivelazioni e scoperte eclatanti su cui appoggiarsi. Surrogati e contraffazioni
ce ne saranno sempre e verranno sempre presentati come la rivelazione della
verità nascosta e finalmente resa nota. Di pseudo profeti dell’ultima ora che
asseriscono di aver scoperto, capito e di dover diffondere arcani e archetipi o
quello che altri hanno tenuto nascosto, ne è piena la storia di ieri, di oggi e
lo sarà quella di domani.
Paolo non ebbe bisogno
di predicare altro: "Se
Cristo non è risorto, vuota allora è la nostra predicazione, vuota anche la
vostra fede... e voi siete ancora nei vostri peccati" (1 Cor. 15,14.17). Con queste forti
parole della prima Lettera ai Corinzi, san Paolo fa capire quale decisiva
importanza egli attribuisse alla risurrezione di Gesù. In tale evento sta infatti
la soluzione del problema posto dal dramma della Croce. Da sola la Croce non
potrebbe spiegare la fede cristiana, anzi rimarrebbe una tragedia, indicazione
dell'assurdità dell'essere. Il mistero pasquale consiste nel fatto che quel
Crocifisso "è risorto il terzo giorno secondo le Scritture" (1
Cor. 15,4) - così attesta la tradizione proto cristiana. Sta qui la chiave di
volta della cristologia paolina: tutto ruota attorno a questo centro
gravitazionale. L'intero insegnamento dell'apostolo Paolo parte dal e arriva
sempre al mistero di Colui che il Padre ha risuscitato da morte. La
risurrezione è un dato fondamentale, quasi un assioma, un principio che viene
assunto come vero perché ritenuto evidente (cfr 1 Cor. 15,12), in base al quale
Paolo può formulare il suo annuncio (kerygma) sintetico: Colui che è stato
crocifisso, e che ha così manifestato l'immenso amore di Dio per l'uomo, è
risorto ed è vivo in mezzo a noi.
E' importante cogliere il legame tra
l'annuncio della risurrezione, così come Paolo lo formula, e quello in uso nelle
prime comunità cristiane. Qui davvero si può vedere l'importanza della
tradizione che precede l'Apostolo e che egli, con grande rispetto e attenzione,
vuole a sua volta consegnare. Il testo sulla risurrezione, contenuto nel cap.
15,1-11 della prima Lettera ai Corinzi, pone bene in risalto il nesso tra
"ricevere" e "trasmettere "…… io vi trasmetto ciò che a mia
volta ho ricevuto”. San Paolo attribuisce molta importanza alla formulazione
letterale della tradizione; al termine del passo in esame sottolinea: "Sia
io (Paolo) che loro (gli Apostoli) così predichiamo" (1 Cor. 15,11),
mettendo con ciò in luce l'unità del kerigma, dell'annuncio per tutti i
credenti e per tutti coloro che annunceranno la risurrezione di Cristo. La
tradizione a cui si ricollega è la fonte alla quale attingere. L'originalità
della sua “cristologia” non va mai a discapito della fedeltà alla tradizione.
Il kerigma degli Apostoli presiede sempre alla personale rielaborazione di
Paolo; ogni sua argomentazione muove dalla tradizione comune, in cui
s'esprime la fede condivisa da tutte le Chiese, che sono una sola Chiesa. E
così san Paolo offre un modello per tutti i tempi sul come fare teologia e come
predicare. Il teologo, il predicatore non crea nuove visioni del mondo e della
vita, ma è al servizio della verità trasmessa, al servizio del fatto reale di
Cristo, della Croce, della risurrezione. Il suo compito è aiutarci a
comprendere oggi, dietro le antiche parole, la realtà del "Dio con
noi", quindi la realtà della vera vita oggi come allora, oggi e sempre,
oggi nella concretezza del vissuto quotidiano.
E'
qui opportuno precisare: san Paolo, nell'annunciare la risurrezione, non si
preoccupa di presentarne un'esposizione dottrinale organica, non vuol scrivere
quasi un manuale di teologia, ma affronta il tema rispondendo a dubbi e domande
concrete che gli venivano proposte dalle comunità dei fedeli; un discorso
occasionale dunque, ma pieno di fede e di teologia vissuta, di certezze
radicate. Vi si riscontra una concentrazione sull'essenziale: noi siamo
stati "giustificati", cioè resi giusti, salvati, dal Cristo morto e
risorto per noi. Emerge innanzitutto il fatto della risurrezione, senza il
quale la vita cristiana sarebbe semplicemente assurda. In quel mattino di
Pasqua avvenne qualcosa di straordinario, di nuovo e, al tempo stesso, di molto
concreto: quel mattino di Pasqua, fu contrassegnato da segni ben precisi,
registrati da numerosi testimoni. Anche per Paolo, come per gli altri autori
del Nuovo Testamento, la risurrezione è legata alla testimonianza di chi ha
fatto un'esperienza diretta del Risorto. Si tratta di vedere e di sentire non
solo con gli occhi o con i sensi, ma anche con una luce interiore che spinge a
riconoscere ciò che i sensi esterni percepiscono e attestano come dato oggettivo.
Paolo dà perciò, come i quattro Vangeli, fondamentale rilevanza al tema dei segni e
delle apparizioni, condizione fondamentale per la fede nel Risorto che ha
lasciato la tomba vuota. Questi due fatti sono importanti: la tomba è vuota e
Gesù è apparso realmente. Si costituisce così quella catena della tradizione
che, attraverso la testimonianza degli Apostoli e dei primi discepoli, giungerà
alle generazioni successive, fino a noi. La risurrezione è un fatto storico e
non semplicemente un pensiero, un ideale filosofico, un artifizio formulato a
posteriori. I primi Cristiani seppero anche affrontare la morte per il loro
credo in Gesù Cristo perché erano
convinti del fatto storico della risurrezione di Gesù, erano certi nel credere
e affermare che senza ombra di dubbio Gesù Cristo era il Figlio di Dio, l’unico
Salvatore del mondo. Di conseguenza,
il messaggio della Chiesa primitiva era sempre incentrato sul fatto storico
della risurrezione e questo non era un semplice mito teologico che iniziò a
circolare tra i discepoli di Gesù Cristo 20 o 30 anni dopo di esso, ma era l’archetipo
su cui si fondava il messaggio proclamato sin dal primo mattino del terzo
giorno.
La prima conseguenza, o il primo modo
di esprimere questa testimonianza, è di predicare la risurrezione di Cristo
come sintesi e fondamento dell'annuncio evangelico, come punto culminante di un
itinerario salvifico unico e irripetibile. Tutto questo Paolo lo fa in diverse
occasioni: si possono consultare le Lettere e gli Atti degli Apostoli dove si
vede sempre che il punto essenziale per lui è “essere testimone della
risurrezione”. Paolo, arrestato a
Gerusalemme, sta davanti al Sinedrio come accusato. In questa circostanza nella
quale è in gioco per lui la morte o la vita, egli indica quale è il senso e il
contenuto di tutta la sua predicazione: "Io sono chiamato in giudizio a
motivo della speranza nella risurrezione dei morti" (At 23,6). Questo
stesso ritornello Paolo ripete continuamente nelle sue Lettere (cfr 1 Ts 1,9s;
4,13-18; 5,10), nelle quali fa appello anche alla sua personale esperienza, al
suo personale incontro con Cristo risorto (cfr Gal 1,15-16; 1 Cor 9,1).
Ma possiamo domandarci:
qual è, per san Paolo, il senso
profondo dell'evento della risurrezione di Gesù?
Che cosa dice a noi a distanza di duemila
anni l'affermazione che "Cristo è
risorto" ?
Perché la risurrezione è per lui e per
noi oggi un tema così determinante?
Paolo dà solennemente risposta a
queste domande all'inizio della Lettera ai Romani, dove esordisce riferendosi
al "Vangelo di Dio ... che riguarda il Figlio suo, nato dal seme di Davide
secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di
santità in virtù della risurrezione dei morti" (Rm 1,3-4). Paolo sa bene e
lo dice molte volte che Gesù era Figlio di Dio sempre, dal momento della sua
incarnazione. La novità della risurrezione consiste nel fatto che Gesù, elevato
dall'umiltà della sua esistenza terrena, viene costituito Figlio di Dio
"con potenza". Il Gesù umiliato fino alla morte di croce può dire
adesso agli Undici: "Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra"
(Mt 28, 18). E' realizzato quanto dice il Salmo 2, 8: "Chiedi a me, ti
darò in possesso le genti e in dominio i confini della terra". Perciò con
la risurrezione comincia l'annuncio del Vangelo di Cristo a tutti i popoli ,
con la risurrezione comincia il Regno di Cristo, questo nuovo Regno che non
conosce altro potere che quello della Verità, dell'Amore e del Perdono.
La risurrezione svela quindi
definitivamente qual è l'autentica identità e la straordinaria statura del
Crocifisso. Una dignità incomparabile e altissima: Gesù è Dio! Per san Paolo la
segreta identità di Gesù, più ancora che nell'incarnazione, si rivela nel
mistero della risurrezione.
Mentre il titolo di Cristo, cioè di
“Messia, in san Paolo tende a diventare
il nome proprio di Gesù e quello di Signore specifica il suo rapporto personale
con i credenti, ora il titolo di Figlio di Dio viene ad illustrare l'intimo
rapporto di Gesù con Dio, un rapporto che si rivela pienamente nell'evento
pasquale. Si può dire, pertanto, che Gesù è risuscitato per essere il Signore
dei morti e dei vivi (cfr Rm 14,9; e 2 Cor 5,15) o, in altri termini, il nostro
Salvatore (cfr Rm 4,25).
Tutto questo è pieno di importanti
conseguenze per la nostra vita di fede: noi siamo chiamati a partecipare fin
nell'intimo del nostro essere a tutta la vicenda della morte e della
risurrezione di Cristo. Dice l'Apostolo: siamo "morti con Cristo"
e crediamo che "vivremo con lui, sapendo che Cristo risorto dai morti non
muore più; la morte non ha più potere su di lui" (Rm 6,8-9). Ciò si
traduce in una condivisione delle sofferenze di Cristo, che prelude a quella
piena configurazione con Lui mediante la risurrezione a cui miriamo nella
speranza. E' ciò che è avvenuto anche a san Paolo, la cui personale esperienza
è descritta nelle Lettere con toni tanto accorati quanto realistici:
"Perché io possa conoscere Lui, la potenza della sua risurrezione, la
comunione alle sue sofferenze, facendomi conforme alla sua morte, nella
speranza di giungere alla risurrezione dai morti" (Fil 3,10-11; cfr 2
Tm 2,8-12).
La teologia della Croce non è una
teoria, è la realtà della vita cristiana. Vivere nella fede in Gesù Cristo,
vivere la verità, l'amore e il perdono, implica la consapevolezza a volontarie
quanto coscienti rinunce ogni giorno,(
..non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando
la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui
gradito e perfetto. Rom .12,2), implica saper accettare anche le sofferenze. Il
cristianesimo non è la via della comodità, è piuttosto una scalata esigente ma
consapevole, illuminata però dalla luce di Cristo e dalla grande speranza che
nasce solo nell’affidarsi completamente a Lui, credendo in Lui come condizione
primaria per ogni scelta, in ogni frangente, prima di ogni pensiero. “ ..non
sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me”( Gal.
2,20).
Afferma Sant'Agostino: Ai cristiani
non è risparmiata la sofferenza, anzi a loro ne tocca un po' di più, perché
vivere la fede esprime il coraggio di affrontare la vita e la storia più in
profondità. Tuttavia solo così, sperimentando la sofferenza, conosciamo la vita
nella sua profondità, nella sua bellezza, nella grande speranza suscitata da
Cristo crocifisso e risorto. Il credente si trova perciò collocato tra due
poli: da un lato, la risurrezione che in qualche modo è già presente e operante
in noi (cfr Col 3,1-4; Ef 2,6); dall'altro, l'urgenza di inserirsi in quel
processo che conduce tutti e tutto verso la pienezza, descritta nella Lettera
ai Romani con un'ardita immagine: “.. come tutta la creazione geme e soffre
quasi le doglie del parto, così anche noi gemiamo nell'attesa della redenzione
del nostro corpo, della nostra redenzione e risurrezione” (cfr Rm 8,18-23).
In sintesi, possiamo dire con Paolo
che il vero credente ottiene la salvezza professando con la sua bocca che Gesù
è il Signore e credendo con il suo cuore che Dio lo ha risuscitato dai
morti (cfr Rm 10,9). Importante è innanzitutto il cuore che crede in Cristo e
nella fede "tocca" il Risorto; ma non basta portare nel cuore la
fede, dobbiamo confessarla e testimoniarla con la bocca, viverla, pur con le
mille cadute, con la nostra vita, rendendo così presente la verità della croce
e della risurrezione nella nostra storia. In questo modo infatti il cristiano
si inserisce in quel processo grazie al quale il primo Adamo, terrestre e
soggetto alla corruzione ed alla morte, va trasformandosi nell'ultimo Adamo,
quello celeste e incorruttibile (cfr 1 Cor 15,20-22.42-49). Tale processo è
stato avviato con la risurrezione di Cristo, nella quale pertanto si fonda la
speranza di potere un giorno entrare anche noi con Cristo nella vera nostra
patria che sta nei Cieli.