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sabato 19 maggio 2012

Il linguaggio delle parabole


        In quel tempo, Gesù disse: «Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore.
Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore.

Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».

Il Pastore Buono

L’immagine di Gesù come Buon Pastore è indubbiamente quella più conosciuta e più amata dai cristiani, un’immagine carica di tanti, significati. Eppure è strano che quando Gesù si presenta come tale, come Buon Pastore, i capi giudei si arrabbiano con lui, lo ritengono un pazzo e alla fine cercheranno anche di lapidarlo. - - Ma abbiamo capito tutto di questa immagine come viene proposta dall’evangelista Giovanni?
Ciò che l’evangelista antepone è il qualificarsi di Gesù ai suoi interlocutori.  Egli si presenta loro rivendicando la pienezza della condizione divina. Quando nel Vangelo di Giovanni Gesù afferma “Io sono”, quest’asserzione rappresenta e richiama il nome divino. Nel famoso episodio del roveto ardente quando Mosè chiese a quell’entità che si manifestava, il nome, Dio dal roveto non rispose imponendo il nome, perché il nome delimita una realtà, ma rispose dando un’attività che lo rende riconoscibile. Dio rispose: “Io sono colui che sono”. La tradizione ebraica ha sempre interpretato questa espressione, “Io sono colui che sono”.  come colui che è sempre vicino al suo popolo; con “Io sono” si indicava Dio.  

Allora Gesù rivendica la condizione divina e afferma: “Io sono” non Il Buon Pastore – traduzione latina di S. Girolamo – ma “il Pastore Buono”. – Testo greco originale –

E’ importante questa sottile differenza?

L’evangelista non sta parlando o mettendo in risalto la bontà di Gesù; quando l’evangelista intende riferire la bontà di Gesù adopera il termine greco (Agatos), da cui il nome Agata, che significa ‘bontà’. Qui, invece Gesù, dichiara che lui è il Pastore, e usa il termine greco “kalos”, da cui calligrafia, bella scrittura, che significa ‘il bello’, ‘il vero’. Quindi non è presentata dall’evangelista la bontà di Gesù, ma ci viene indicato qualcosa di diverso, qualcosa di più importante. C’era una profezia al cap. 34 nel Libro di Ezechiele conosciuta dagli interlocutori di Gesù, dove il Signore rimproverava i pastori del popolo, perché, anziché prendersi cura del gregge, pensavano soltanto a loro stessi. Il Signore rimproverandoli li ammonisce: “Verrà un tempo in cui io stesso mi prenderò cura del mio gregge”. Gesù dichiara nel brano evangelico, “questo momento è arrivato”. Ecco perché questo suscita le ire dei capi religiosi, ecco perché si sentono spodestati e offesi da chi li definisce ladri e omicidi, ecco perché di tanta rabbia; perché Gesù li accusa di essersi impadroniti di ciò che non è loro, il gregge.

Ritornando all’asserzione “io sono” è bene notare come essa sia ripetuta in questo Vangelo, in questo brano, per ben tre volte. Il numero tre, secondo la simbologia ebraica, significava ciò che è completo. Quindi l’evangelista pone l’accento su Gesù il quale rivendica la pienezza della condizione divina e il suo essere Pastore. Perché solo Gesù può affermare di essere Pastore? Perché solo chi è disposto a sacrificare la vita per gli altri, questi può essere il Pastore del gregge, perché solo colui che “conosce le sue pecore è dalle sue pecore conosciuto”. C‘è una comunicazione intima, crescente, traboccante d’amore tra Gesù e il suo gregge, cioè tra Gesù e i suoi discepoli, i credenti, che è simile, dice Gesù, a quella del Padre con lui.

“Così come il Padre conosce me, io conosco il Padre e do la mia vita per le pecore”. C’è una dinamica di un amore ricevuto da Dio, che si trasforma in amore comunicato agli altri. Più questa misura di amore ricevuto e comunicato è crescente, più si arriva a realizzare un’unica realtà di un Dio che non assorbe le energie degli uomini, ma che comunica loro le sue, un Dio che vuole con l’uomo, fare un unico vero santuario. Infatti, dichiarerà Gesù, “Le altre pecore che non provengono da questo recinto … “. E’ chiaro, Gesù è venuto a liberare le persone non solo della casa di Israele, ma di ogni casa in ogni parte del mondo.

La struttura immagine del recinto è qualcosa che ti da sicurezza, però è innegabile che ti tolga la libertà. Gesù dichiara che è venuto a  innescare un processo di liberazione per l’umanità intera, un’azione che non riguarda soltanto le persone che sono rinchiuse nel recinto delle religioni, ma in tutti quei recinti che impediscono la libertà. La religione a volte è percepita, vissuta e presentata come qualcosa che ti da sicurezza, è però innegabile che possa toglierti la libertà, ti da sicurezza perché quando entri nell’ambito della religione, devi soltanto obbedire, devi soltanto osservare, ma questo ti mantiene in una condizione infantile, d’immaturità; invece Gesù propone alla persona la piena maturità, la piena crescita, propone una scelta: la fede il totale abbandono in Lui.

Prosegue la parabola: “Ho altre pecore che non provengono da questo recinto, quindi è volontà di Dio il processo di liberazione, Lui il Figlio, è venuto a liberare le pecore dal recinto dell’istituzione giudaica, non per crearne uno nuovo, ma per proporre a tutti una scelta fatta nella libertà matura e consapevole. “Ascolteranno la mia voce”, la voce del Signore non s’impone mai, ma si propone sempre come risposta di Dio al bisogno di pienezza di vita che ogni persona si porta dentro e le pecore, il gregge, i credenti, questo lo capiscono. Dio non può che proporre il bene a ogni persona, Dio è colui che non vuole la morte del peccatore, ma che questi viva e si converta, ma non in una  ritualità a volte scaramantica, ma a una fede. (scelta impegnante di vita con Cristo).

In passato, si è spesso confuso il termine ‘recinto’,’ovile’, probabilmente a causa della traduzione latina di S. Girolamo, “un solo ovile e un solo pastore” avendo la pretesa per tanti e tanti secoli, fino al Concilio Vaticano II, di essere l’unico ovile nel quale c’era la salvezza.Gesù non è venuto a togliere le persone e le pecore dall’ovile, Israele, per rinchiuderle in un altro recinto più sacro, più bello.  Il Figlio del Dio vivo è venuto a dare la piena libertà: l’unico vero santuario nel quale d’ora in poi si manifesterà la grandezza e lo splendore dell’amore di Dio, sarà Gesù e la sua comunità di fede nata e guidata dallo Spirito. Mentre nell’antico santuario le persone vi dovevano andare e molte ne erano escluse, nel nuovo santuario, è il santuario stesso che si offrirà, che andrà in cerca degli esclusi dalla religione.

Allora, il Pastore, quello vero, quello “per eccellenza” è identificato da Gesù nella sua persona perché il Pastore Vero “da la vita per le sue pecore”.  Gesù con quest’affermazione supera la profezia di Ezechiele. Mentre per il Profeta Ezechiele il pastore proteggeva, si prendeva cura del suo gregge, con Gesù il pastore arriva al punto di dare la vita per le sue pecore.
L’evangelista poi pone l’accento sulla diversità dell’entità di chi si propone come pastore vero e di chi viene non solo considerato come un cattivo pastore, ma “un mercenario”, colui che agisce per e solo in funzione di un proprio tornaconto. Non è intenzione dell’autore del quarto vangelo canonico in queste pagine entrare in polemica con il mondo ebraico di allora, realtà dalla quale le comunità cristiane si erano ormai irrimediabilmente separate, distaccate, ma è, esclusivamente, un monito rivolto alle nascenti comunità cristiane affinché non ripetano gli stessi errori. Nella comunità cristiana, chi agisce esclusivamente per il proprio interesse, per il proprio tornaconto, per il proprio prestigio, oggi come allora, non ha nessun titolo, nessuna carica, se non quella dispregiativa di essere “il mercenario”.

Se poi si accosta la parabola della pecorella smarrita, si comprende appieno il senso del messaggio di Gesù dato, non solo ai suoi contemporanei, ma a tutti senza distinzione alcuna.  Il “pastore vero” va in cerca della pecorella che si è smarrita, non a causa di una distrazione del pastore, ma come conseguenza della piena libertà che il pastore concede alle sue pecore; in altri termini, non può mai essere un atto di costrizione o casualità l’essere al sicuro nel recinto, dove portinaio e il vero pastore tutelano le pecore in esso contenute, ma un atto di libera scelta.  Il tema della libertà tanto caro all’apostolo Paolo, è una condizione ripresa in molti scritti del nuovo testamento. Non vi possono essere vincolo, costrizione o incoscienza nell’abbracciare e vivere la fede, ma solo libera e consapevole scelta. “Cristo vi ha liberati perché viviate liberi” (Gal. 5.1)……. “…vivete nelle Verità e la Verità (Cristo) vi renderà liberi.”( Giov.8.32)

Scelte che nascono nella sincerità, terminano con l’inevitabile incontro con il vero pastore, il quale, ha come missione la continua offerta di un luogo sicuro: l’ovile, dove potrai farvi ritorno a ogni calar delle molti sere della tua vita, dopo una giornata vissuta in piena libertà o anche, se lo crederai opportuno, allontanarti da esso, finché non ne comprenderai l’errore, non ne avvertirai l’esigenza. Se l’ansia di percorrere altre strade, compiere nuove esplorazioni, cercare altri recinti, è la tua scelta, è perché non hai ancora compreso appieno l’offerta fatta dal vero Pastore; Egli comunque come sarà rispettoso nei confronti di quanto da te scelto, sarà similmente solerte nel non esimersi dall’offrirti il suo aiuto e la sicurezza del recinto quando consapevolmente lo comprenderai e comprendendo lo vorrai.

Di rimando varrebbe richiamare alla memoria la lettura della parabola del “Padre Buono” o come classificata in passato del “Figliol Prodigo”: la libertà della scelta compiuta dal figlio, il rispetto da parte del padre della scelta fatta, la presa di coscienza dell’errore commesso unita alla volontà libera e consapevole di voler porvi rimedio fidandosi del padre, l’abbraccio incondizionato del padre, di chi perdona perché ama, di chi è pronto a caricarsi sulle spalle la pecorella smarrita e stremata e se accondiscendente, portarla là dove solo potrà riprendere forze e sentirsi al sicuro, là dove nella verità potrà conoscere la vera libertà.
Similmente si potrebbe dire della Parabola del Buon Samaritano, dove l’evangelista Luca ripropone lo stesso scenario: l’uomo che si avventura per una strada pericolosa dove viene aggredito e lasciato morente ai bordi della carreggiata, passano molte figure riferite a personaggi autorevoli nella società che potrebbero dagli soccorso, ma solo una, il Buon Samaritano, si prende cura dello sconosciuto aggredito dai briganti, senza preoccuparsi chi sia o a quale etnia e sistema socio politico religioso appartenga, lo cura, lo porta in un luogo sicuro dove potrà riprendere le forze, avere le cure necessarie, sentirsi amato e nuovamente al sicuro, riprendere il cammino interrotto.  Egli (il buon samaritano), vive nella sua persona i comportamenti di Gesù che ha sacrificato la vita per gli altri, amici e nemici, giusti e ingiusti, ricordandoci che la nostra fede non può mai scivolare nella sola dimensione del culto, di una religione, di regole e precetti fine a se stessi, altrimenti il fondamento su cui poggia il nostro credo e la nostra esistenza siamo noi stessi, le nostre idee e convinzioni e non più Cristo e la sua proposta di essere, in Lui, e con Lui nello Spirito, creature “nuove” a immagine e somiglianza del Creatore. 
m.z.                                                    

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